Che terribile bellezza! Da quest’istante strappo dalla mia mente qualsiasi altra donna Terenzio, Eunuco, Voglio una coppa piena sino all’orlo E dentro annegarci l’anima: Riempitela d’una droga capace Di bandire la Donna dalla mente. E non voglio dell’acqua poetica, che scaldi I sensi al desiderio lussurioso, Ma una sorsata profonda Tracannata dalle onde del Lete, Per liberare con un incanto il mio Petto disperato dall’immagine Più bella che gli occhi miei festanti Videro, intossicandone la mente. È inutile mi perseguita strugge.
Sposa ancora inviolata del silenzio, figlia del lento tempo e della quiete, narratrice silvana che più dolce della rima sai favole narrare; qual leggenda di foglie incorniciata abita la tua forma, di immortali o mortali, o di entrambi, in Tempe o nelle valli di Arcadia? Quali uomini o iddii son questi? Quali vergini restie? Che folle caccia e lotta per fuggire? Che flauti e tamburelli, che fiera estasi?
Non posso esistere senza di te. Mi dimentico di tutto tranne che di rivederti: la mia vita sembra che si arresti lì, non vedo più avanti. Mi hai assorbito. In questo momento ho la sensazione come di dissolvermi: sarei estremamente triste senza la speranza di rivederti presto. Avrei paura a staccarmi da te. Mi hai rapito via l’anima con un potere cui non posso resistere; eppure potei resistere finché non ti vidi; e anche dopo averti veduta mi sforzai spesso di ragionare contro le ragioni del mio amore. Ora non ne sono più capace. Sarebbe una pena troppo grande. Il mio amore è egoista. Non posso respirare senza di te.
Benché imprigionato per aver detto il vero a un principe adulato, il generoso Hunt, in spirito immortale, libero si è serbato, come nobile allodola richiamata dal cielo. Lacchè dei Grandi, che cosa ti aspettavi? Ch’egli avrebbe fissato i muri della cella finché tu controvoglia ne riaprissi la porta? No! Più alta e felice era già la sua sorte! Nelle corti di Spenser egli vagò, in pergole leggiadre, colse magici fiori, audace risalì, con Milton, i campi d’aria; e in feudi a lui certi da vero genio fece inebrianti voli. Chi potrà la sua fama funestare quando sarete morti tu e la tua ciurma di mariuoli?
I Tu, ancora inviolata sposa della quiete, Figlia adottiva del tempo lento e del silenzio, Narratrice silvana, tu che una favola fiorita Racconti, più dolce dei miei versi, Quale intarsiata leggenda di foglie pervade La tua forma, sono dei o mortali, O entrambi, insieme, a Tempo o in Arcadia? E che uomini sono? Che dei? E le fanciulle ritrose? Qual è la folle ricerca? E la fuga tentata? E i flauti, e i cembali? Quale estasi selvaggia? II Sì, le melodie ascoltate sono dolci; ma più dolci Ancora sono quelle inascoltate. Su, flauti lievi, Continuate, ma non per l’udito; preziosamente Suonate per lo spirito arie senza suono. E tu, giovane, bello, non potrai mai finire Il tuo canto sotto quegli alberi che mai saranno spogli; E tu, amante audace, non potrai mai baciare Lei che ti è così vicino; ma non lamentarti Se la gioia ti sfugge: lei non potrà mai fuggire, E tu l’amerai per sempre, per sempre così bella. III Ah, rami felici! Non saranno mai sparse Le vostre foglie, e mai diranno addio alla primavera; E felice anche te, musico mai stanco, Che sempre e sempre nuovi canti avrai; Ma più felice te, amore più felice, Per sempre caldo e ancora da godere, Per sempre ansimante, giovane in eterno, Superiori siete a ogni vivente passione umana Che il cuore addolorato lascia e sazio, La fronte in fiamme, secca la lingua. IV E chi siete voi, che andate al sacrificio? Verso quale verde altare, sacerdote misterioso, Conduci la giovenca muggente, i fianchi Morbidi coperti da ghirlande? E quale paese sul mare, o sul fiume, O inerpicato tra la pace dei monti Hai mai lasciato questa gente in questo sacro mattino? Silenziose, o paese, le tue strade saranno per sempre, E mai nessuno tornerà a dire Perché sei stato abbandonato. V Oh, forma attica! Posa leggiadra! Con un ricamo D’uomini e fanciulle nel marmo, Coi rami della foresta e le erbe calpestate. Tu, forma silenziosa, come l’eternità Tormenti e spezzi la nostra ragione. Fredda pastorale! Quando l’età avrà devastato questa generazione, Ancora tu ci sarai, eterna, tra nuovi dolori Non più nostri, amica all’uomo, cui dirai “Bellezza è verità, verità bellezza”, questo solo Sulla terra sapete, ed è quanto basta.
Il cuore si strugge ed un sonnolento torpore affligge i sensi, come se ebro di cicuta, o d’un sonnifero pesante trangugiato pochi istanti fa, fossi affondato nel Lete: è non certo per invidia della tua felice sorte, ma troppo felice nella tua felicità. Tu, arborea driade dalle lievi piume, che in una macchia melodiosa di faggi verdi e sparsa d’ombre innumerevoli canti l’estate la felicità a gola spiegata. O per un sorso di vino! Che sia stato rinfrescato da secoli nelle profondità sotterranee, sapido di Flora e di prati verdi, di danza, di canti provenzali, d’allegria solare! Oh, sì, bere una coppa colma di calore, pregna di rosso, Ippocrene pura e sincera, con rosari di bolle occhieggianti sull’orlo, e la bocca macchiata di porpora; sì, poter bere, e inosservato lasciare il mondo per svanire, infine, con te, nelle foreste oscure. Sparire, lontano, dissolvermi, e dimenticare poi ciò che tu, tra le foglie, non hai mai conosciuto: il languore, la malattia, l’ansia. Qui dove gli uomini seggono e odon l’un l’altro gemere, qui, dove il tremito scuote gli ultimi, scarsi capelli grigi, dove la giovinezza impallidisce, si consuma e spettrale muore, dove il pensare stesso è riempirsi di dolore, e la disperazione regna, dagli occhi di piombo, dove la bellezza vede spenta la luce dallo sguardo e il nuovo amore non riesce a struggersi oltre il domani. Lontano! Lontano! e arrivare da te, non portato da Bacco e dai suoi pargoli, ma sulle invisibili ali della poesia, anche se la mente, ottusa, si confonde e indugia: già lì, con te, tenera è la notte, con la sua luna regina sul trono e le fate stellate tutt’intorno: qui, invece, non c’è luce alcuna, se non quella che dal cielo con la brezza spira per verdeggianti tenebre e sinuosi sentieri di muschio. Non vedo quali fiori siano ai miei piedi, né che dolce incenso impenda sui rami, ma nella profumata oscurità intuisco ogni soavità di cui il mese propizio dota l’erba, il boschetto e il selvaggio albero da frutta, il biancospino e la pastorale Eglantina, viole, presto appassite e sepolte tra le foglie; e la figliuola maggiore di metà maggio: la veniente rosa muschiata, dall’umore di vino di rugiada, mormoreggiante dimora d’insetti nelle sere estive. Nel buio ascolto, e ben molte volte ho quasi desiderato la confortevole morte, l’ho chiamata con soavi nomi in molte meditate rime, l’ho pregata perché via si portasse nell’aria il mio respiro. Or più che mai mi pare bene morire: spegnersi a mezzanotte, senza alcun dolore, mentre tu versi fuori l’anima in tale estasi! Tu canteresti ancora: ed io avrei orecchie invano, al tuo alto requie divenuto una zolla. Tu non nascesti per morire, tu, piuma immortale! Le affannate generazioni non ti calpestano, e la voce, che odo in questa fuggevole notte, fu udita in antichi giorni da re e da villani: forse è lo stesso canto che il sentiero trovò nel cuore di Ruth, quando afflitta da nostalgia ella stette in lagrime tra il grano straniero; lo stesso, forse, che spesse volte ha incantato magiche finestre, aperte sulla schiuma di perigliosi mari, in fatate terre deserte. Deserte! Come una campana risuona questa parola che rintocca per ritrarmi da te alla mia solitudine! Addio! La fantasia non può frodare così bene com’ella ha fame di fare, ingannevole silfo. Addio, addio. La tua antifona dolorosa svanisce oltre i prati vicini, oltre la silenziosa corrente, su per il colle per svanire appieno tra i boschi della vicina valle. È stato un sogno? O una visione? Svanita è quella musica: dormo o son desto?
Quattro stagioni fanno intero l’anno, quattro stagioni ha l’animo dell’uomo. Egli ha la sua robusta Primavera quando coglie l’ingenua fantasia ad aprire di mano ogni bellezza; ha la sua Estate quando ruminare il boccone di miel primaverile del giovine pensiero ama perduto di voluttà, e così fantasticando, quanto gli è dato approssimarsi al cielo; e calmi ormeggi in rada ha nel suo Autunno quando ripiega strettamente le ali pago di star così a contemplare oziando le nebbie, di lasciare le cose belle inavvertite lungi passare come sulla siglia un rivo. Anche ha il suo Inverno di sfiguramento pallido, sennò forza gli sarebbe rinunciare alla sua mortal natura.
Lasciate intanto che la musica erri ai miei orecchi d’intorno; e come quella ogni cadenza deliziosa tocca, lasciate che io scriva un verso pieno di molte meraviglie delle sfere, splendido al suono: con che altezze in gara il mio spirito venne! Né contento è di restare così presto solo.
Lo sfavillio del suo sguardo splendente E quel seno, terrestre paradiso. Mai più felice sarà la vista mia, Ché ha perso il visibile ogni sapore: Perduto è il piacere della poesia, L’ammirazione per il classico nitore. Sapesse lei come batte il mio cuore, Con un sorriso ne lenirebbe la pena, E sollevato ne sentirei la dolcezza, La gioia, mescolata col dolore. Come un toscano perduto in Lapponia, Tra le nevi, pensa al suo dolce Arno, Così sarà lei per me in eterno L’aura della mia memoria.
Mai la terrestre poesia non muore. Quando tutti gli uccelli al solleone vengono meno e stan nascosti in mezzo la frescura degli alberi, una voce corre di siepe in siepe intorno al prato su cui appena passò rasa la falce: è del grillo dei campi, il capintesta nel tripudio d’estate, mai godere non cessa, perché quando a giuochi è stanco posa con agio sotto una grata erba. Fine non ha la poesia terrestre. D’inverno, in una sera solitaria, quando il silenzio è opera del gelo, strepe fuor della stufa il suon del grillo del focolare che col caldo sempre viene crescendo, e a uno che smarrito a mezzo sta fra sonno e veglia, il canto par del grillo dei campi ai colli erbosi.
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