A che pro fuggire l’estate venuta verso un mare ben ancorato nel suo letto quando restare immobili sul fondo del cammino sembra un modo di navigare e il solo unire le dita sotto la fronte ti consacra capitano perché basta poco un soffio di vento un po’ più secco che ti gonfia il cappotto e trovare come un tempo la forza di soffiare abbassando le palpebre per veder uscire dal porto il villaggio ai tuoi piedi tutta questa gente senza storia sotto il panno che svolazza in piedi e salutando sul ponte beffardo questo paese che ti tiene come uno sguardo d’amico.
La campana della vecchia burriera nel sole d’ottobre è una chiesa dimenticata sulla tavola degli uomini Raduna attorno a sé le briciole splendenti del cuore che ha vissuto la sua ora di gloria nella condivisione e il placarsi delle grida pepite che una mano seminerà sul prato blu per gli uccelli gli insetti gli dei invisibili che portano la luce nelle cavità degli alberi immobili e nello spazio aperto la notte tra i nostri sogni
Certo la notte può fissare il mare negli specchi: le feste sono finite solo il sangue ancora matura nell’ombra che tornisce la terra come questo chicco d’uva nera scordato nella stanza dell’occhio sprofondato da un’aquila che strazia la tela nella gola del tempo
Questo grande corpo spalancato prima dell’alba e che la notte non chiude mai del tutto oh cucina d’infanzia se lo consegni è passo dopo passo a quelli che, nell’ombra come noi, acconsentono a morire lontano dai tuoi fuochi, sulle strade in mare o più in alto delle nuvole, dopo aver superato la barriera e spezzato le ultime immagini che li tenevano per i capelli. Furono i tuoi ospiti improvvisati, i tuoi operai dell’ultima ora, questi amanti che la pioggia porta via con la sabbia dei lampi verso un mare più vasto e inutile, e tutti sostenendo che l’impalcatura del sogno è caduta con la notte, e non resta che attendere tutti, si ricordano il tuo ventre, le tue ginocchia i tuoi occhi fuggiti nella dolce luce d’inverno il tuo calore di cagna e del tuo giardino pieno di muschio dai profumi intrecciati come i boccoli degli angeli nell’abetaia di mezzanotte. Oh memoria, bella prigioniera del vento che nessuno nella sua disfatta disfa perfino se ha perduto il nome e la donna e la follia memoria, nostro unico bagaglio in questo luogo senza radici (ma che altro opporre all’angoscia che ci serra gli uni contro gli altri, eppure tutti estranei e ben più solitari di un bosso crocifisso nell’estate infernale dei granai, sì, quale altro filo per non cedere nel labirinto all’arida esistenza delle mummie?)
O cucina tanto aperta e così calda nel tuo dolore da sempre, per tutto il tempo, da poter dire Andate a vedere altrove se io là ci sono, in un moto di stizza sappiamo che tu sei là, che aspetti come la notte l’esaltazione delle voci, delle grida e la tavolata dove, come un cuore ben attaccato al mestolo che versa la primavera nei piatti, sorridi alle ombre dello specchio arrugginito e ti perdi nei passi di allora i ricordi bianchi o neri l’odore persistente dei lillà a sbarrare il corridoio come una stanza chiusa per sempre dove sfilano uno per uno i morti amati e gli altri per esempio quello che se ne fuggì in Abissinia ad abbracciare una rosa viva – pena perduta – e quell’altro che divenne pazzo per amore di un cavallo, tutti li raduni attorno alla tavola come i seni, la testa, le gambe, le due ali della casa, senza dimenticare quella che fu la parte di ciascuno: l’acqua, il sale, la zuccheriera e i piatti – e il tempo passa così, il fuoco si è spento le ombre hanno ripreso il loro viso inconsolabile Pazienza! Ricostruisci per i boschi che gemono e per la conta muta della scala pezzo per pezzo, questo puzzle rimasto così a lungo confuso: la vita di una cucina in provincia.
La porta di nastro che bilancia la brezza è la sola fontana che abbevera con un po’ d’ombra di biancheria la cucina che si apre sulla terrazza dove da mezzogiorno cuoce il pane della luce. (Anche il sole si è trasformato in statua) Si sentono solo i colpetti di becco degli ultimi uccelli invisibili sulla crosta croccante.
Come la neve tra i passi dello sconosciuto la casa respira tra le ore battute sul quadrante notturno respira, ascolta, aspira all’eterna eco delle voci uccise che risalgono dai giardini trema e respira, come la rugiada sul vetro freddo, la vita che svapora mentre chi dorme vicino al tetto misura a grandi colpi d’ala immobile il mare imprigionato tra le tempie.
Mi dicevo anche: vivere è altra cosa da quest’oblio del tempo che passa, non le stragi dell’amore e dell’usura – dal mattino alla notte lo facciamo: fendere il mare, fendere il cielo, la terra, volta per volta uccello, pesce, talpa, infine: giocando a mescolare l’aria, l’acqua, i frutti e la polvere; agendo come, bruciando per, andando verso, a raccogliere cosa? Il verme nella mela, tra le messi il vento, tanto tutto sempre ricade, tanto tutto ricomincia e niente mai è uguale a quello che era, né meglio né peggio, e non cessa di ripetere: vivere è altra cosa. Guy Goffette (Jamoigne, 1947) da I canti del pescatore d’acqua (Carte di fumo, 2006) Je me disasis aussi: vivre est autre chose que cet oubli du temps qui passe et des ravages de l’amour et de l’usure: ce que nous faisons du matin à la nuit: fendre la mer fendre le ciel, la terre, tout à tour oiseau, poisson, taupe, enfin: jouant à brasser l’air, l’eau, les fuits, la poussière; agissant comme, brûlant pour, marchant vers, récoltant quoi? le ver dans la pomme, le vent dans les blès puisque tout retombe toujours, puisque tout recommence et rien n’est jamais pareil à ce qui fut, ni pire ni meilleur qui ne cesse de repeter: vivre est autre chose.
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