Il libro è un ventaglio di analogie. La memoria è una lingua di mare: avanza, indietreggia, accarezza la sabbia, ispeziona le orme dei passi non dichiarati… Figlio di un frontespizio, anch’io come tanti, mi vergogno di spogliare gli affetti. La coscienza mi invita a sigillare il carattere nel guscio anonimo di un cofanetto usurpato dalle allusioni… Il ventaglio si apre e si chiude come una preghiera sussurrata nel buio alla presenza di un testimone che ascolta e traduce le assonanze amorose… da STATUE
Tre righe di assuefazione. L’amore ambiguo che mi unisce alla storia. La simpatica antipatia che mi lega alla gente – stupida e intelligente – che mette in vetrina la storia oltre i parametri della decenza… La storia è un romanzo, la prefazione è una delega al pensiero di Dio… “ARIA DI PROSA”
Per un pugno di sonno venderei la memoria: è un magnetofono consumato dagli anni: registra sbagli e bugie, amplifica le notizie che ci aggrediscono ora per ora, giorno per giorno, disturbando il silenzio che si apre tra le note serene o svagate di un diario che riporta episodi e frasi d’autore… Il silenzio creativo non è una bravata, è una sorpresa che anticipa il sonno, smorzando i commenti fino all’impercettibilità degli impulsi emotivi…
Lasciate che vi risvegli, nomi emblematici, segnalibri di memorie appassite. È lecito ammettere un nome, affabile e compiacente al dialogante che strilla, come un automa, se gli premi la pancia se gli tiri le orecchie che non ascoltano… Lasciate che i libri si spoglino come statue dopo decenni di clausura e chiedano al mondo uno stralcio di visibilità non pagata… “FILI D’ERBA”
Le nuvole e le faville vanno agli eredi lontani – eredi di un verso, di una lacrima riguardosa – di uno sguardo enigmatico come le cime che si schermiscono come vecchie bambine mentre la cartolina lavora – quinta insensibile – nel palcoscenico delle scadenze.
Le mani tremano come bambine spaventate dal ritmo delle prime emozioni. La sera placa gli affanni e i tremori superflui. La notte è un palcoscenico di carezze all’amico che legge e ringrazia con la pazienza di una cara elusione: “per leggerti, ci vuole una vita, il mio giudizio, lo troverai in Paradiso…”
“La tristezza è un malanno, un peccato mortale, uccide l’anima, mortifica il corpo.” Mi scuso e giustifico: “l’ora triste non dipende dalla mia volontà, è il frutto di muti disagi che umiliano il canto e offendono la memoria…” “Ognuno riceve il suo piccolo sole: si accende e si spegne senza disturbare le mani, rischiara il diario invisibile, lo straccia, lo abbaglia, lo brucia incolpando la luna o la lampada da comodino, testimone, gendarme delle tue veglie.”
La memoria è un’orchestra o una corda tradita. Il pulpito e il podio hanno l’altezza dei simboli, l’inchiostro dei paradossi… Troppo alti per ascoltare la terra… Troppo bassi per orchestrare i sussurri e le nuvole indipendenti…
Voleva essere un aforisma e la stanchezza l’ha convertito al mistero… Voleva essere un’abitudine, una macchia in un mare di panna… E il cielo ha trasmesso un ricamo di nuvole… Voleva essere una postilla. E la rima è spuntata – nel cuore del testamento – in punta di prosa per non svegliare il censore, l’esegeta che dorme come l’angelo del primo dono. “BLADES OF GRASS”
Disordine nella bellezza. Disordine nella vecchiaia. Lo sguardo si specchia nelle parole, onde della memoria, tremolii, balbettii, bestemmie velate e poi preci, atti di contrizione, spunti rapidi di riflessione, di rinuncia, di attesa… Gli appunti hanno il decoro del vecchio che riceve i parenti, una volta alla settimana. Il malessere si converte alla stasi. Il turbamento si rassegna alla sintesi dei commenti: ma che bello, che giovane, che disgrazia invecchiare e leggere la propria vecchiaia a chi conta i minuti che volano tra il benvenuto e il congedo… “SILLABE INDIPENDENTI”
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