Guardavo le foglie che il vento stacca dai rami e via le trascina nei turbini della pioggia e le macera e le stritola fino a mutarle quasi nel suo sibilo, nel suo grido stesso. Allora m’è venuto il pensiero della morte che noi pure ci stacca così dal tronco della terra nero, quando vecchiaia o fuoco di febbri han consumato la nostra foglia umana. Un soffio appena più forte il tremulo gambo recide: e saremo così trascinati dalla pioggia, mischiati a nuvole d’ altre foglie. La morte ci scioglie nelle grida del vento. Eppure chissà che senso di felicità originaria si proverà in quel momento, quando le nostre corde strappate dalla morte renderanno un accento supremo all’ unisono con l’ accordo maggiore dell’ universo. Forse l’estrema gioia inutilmente inseguita per tutta la vita, è quella che ci folgora al momento di morire, nel grande mutamento.
Mura ch’io vidi in un sogno d’infanzia cadermi addosso a strapiombi di torri, a blocchi d’ocra fulva e di tufo sulla silenziosa via del sonno, vi ritrovo, passati tanti anni, lungo la stessa strada sonnolenta, altissime mura deserte di voci; tremano al cielo pochi fili d’erba. Per miglia e miglia un sentiero solingo circonda le altissime mura di sonno: immobile il sole vi batte sul giallo e ferma è l’ora in un colore eterno.
Al fuoco d’occidente popolosa declina la via di festa; e filtra a quel raggio d’ebrezza la folla che già fonde in amorosa amalgama di membra. A fiotti a fiotti il florido fiume di carne scende; si rigonfia sul ciglio dell’alta rampa, poi rovescia ombroso e franto in ime gole di tetri rioni e di chiese.
O miei piovosi inverni, umidità delle mie strade antiche, e voi, chiese grondanti, cimiteri dentro le nuvole, solo a sera una fiamma d’aperto cielo accende il sanguigno mattone dei ruderi, solitario sui prati spenti. Mia vita, anche tu attendi sui tuoi colori muti il salmo dell’ora serale.
In sere d’eterno diluvio m’è grato rifugio la cupola interna della stazione; e mi basta sentire l’odore di zolfo del fumo dei treni perché subito si sfreni la mia fantasia sedentaria e via se ne fugga fuor della scura tettoia cercando nel buio dei prati la gioia dell’erba nera che succhia la pioggia. Cammino su e giù per l’asfalto di questa gran piazza coperta che simula un vuoto mercato o una cattedrale smessa. I greci avevano il portico candido, ma a noi meglio si conviene questo fumoso chiesone sconsacrato, ridotto a stazione. Chiaror di lampi celebra sotto l’arco di ferro il puro altare delle montuose nevi.
Trasognato e felice per viucole antiche, vagavo sotto un cielo vicino alla pioggia. Leggero ai passi m’era il suolo e vaniva la via sotto il piede come un fiume di nuvole; tanto mite scendeva a specchio dei selciati la dolce ora di sera fra le brune case, e anche le persone ferme nel vano buio delle porte avevano non so quale perlata ombra sui volti. Via Monserrato, via del Pellegrino, Campo dei Fiori mi si aprì di gialli meloni acceso e cocomeri rossi nel grigio della sera senza lumi, fin quando prese a cadere una pioggia tiepida, lieve, e le strade si fecero nere.
Mi coglie lo scroscio dirotto a mezzogiorno sul ponte: dintorno la città -chiese e palazzi- si scioglie in fumo e non si vede più. Anche quell’ultima cupola è sparita. Rimasto solo è il ponte, tagliato dalle sponde, sospeso in alto in alto fra le nuvole con le sue statue d’angeli grondanti. Ma mentre la città mi si cancella nel fumante diluvio dentro la nube uno spiraglio ride verso uno sfondo di monti sereni: e dietro un vetro limpido e sottile l’ultima pioggia un praticello splende avvicinato in quell’ umida lente. Fuori di porta è già tornato il sole. da LINEA DELLA VITA
Sono belle le sere quando la luce scende di colore e dall’oro e dal viola s’ immerge nel turchino. Ma questa grigia fine di giorno sotto il cenere d’agosto ha il pallore che scava il viso umano un istante dopo la morte. Dentro il cielo spettrale i cipressi s’infiggono più neri e più livido sotto le loro ali si rizza il travertino della chiesa che altissima trasale con un sobbalzo d’ossa gridato con un urlo senza voce come quando nei sogni si vorrebbe chiamare e non si può.
Come schiavi perduti in crollate miniere, i ricordi del cuore scavano incontro alle speranze prime che la vita lasciò dietro ai suoi mali; disperati richiami battono al buio e ascoltano se alcuno risponda di lontano. Talora un tocco lievissimo s’ode come vibrato da un martello d’ oro e la montagna giubila a quel suono alleggerita e pura; ma subito il silenzio si rimura sui paurosi giorni orfani d’ ogni voce. le mie speranze sono ormai cadute dall’ altra parte della vita…
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