Vengono, da un tempo che non è più, da un punto smemorato del mondo, fionde di una luce persa, abissale. Urta, annaspa, l’anima, s’infiamma nella materia, vaga, del cielo, s’incrinano le anfore – attonite, vaste – degli occhi, nero che si fa nero, fuoco che s’impenna, arde delira in cunicoli di cosmo, in tavole
di tenebra
Poesia n. 340 Settembre 2018 Giancarlo Pontiggia. Il moto delle cose a cura di Antonio Sichera
Tempi, che stabilite i comandi sulle cose con queste parole e non altre dette nel cuore di un’estate compiute, ripetute e celate sopra la terra e in ogni stagione restituitemi salvo e incolume nel senso che do alle mie parole in quel senso solitario con cui voglio che vengano dette, ascoltate e pensate e per voi tra i lari delle stanze e dei giardini tra gli spigoli del mondo Giancarlo Pontiggia (Seregno, 1952) daCon parole remote(Guanda, 1998)
Una svolta, fine, poi. È quel poi che lo assilla. Come ferve, dietro di sé, l’antico bulicame delle cose. Buttarsi non buttarsi. Un ramo oscilla sul ciglio dell’occhio che precipita in un’ardesia di fuoco, immane Giancarlo Pontiggia (Seregno, 1952), da Il moto delle cose (Mondadori, 2017)
E leggi che durare possono le cose che non hanno vita, e tu muori, e questi versi, che altri un giorno leggeranno, durano più di te, e tu non duri, e li hai fatti e in queste stanze dove tante ore hai dormito, altri ci dormiranno: e così poco è la vita, che un verso, un muro, un letto sono più lunghi di te, erano prima, e sono dopo di te. Giancarlo Pontiggia (Seregno, 1952), da Origini. Poesie 1998-2010 (Interlinea, 2015)
È notte, sei tra le cose del mondo, le cose solide, vaganti, che si sfanno in altre cose: cose su cose, nell’imo che fermenta, e sprofondi nella vita che è, nel tutto che s’invasa in uno, prima di sfarsi nel crivello della mente stridi, becchi, blaterii buchi di lingua, suoni che si torcono, stipano si ammaccano ed è lì, lei, fa un cenno l’ombra funesta, troppo amata,, fa freddo, com’è troppa la stagione, con che tenaglie stride, si torce, scuote le lusinghe del mondo, “dov’è che sei?” le chiedo, nel gelo di biglia delle cose “sei cosa o altro?”, mentre delira in delirio il mondo, si sfarina, ed io “non ho tempo per questo struggimento stupido, doloroso, di’ soltanto se sei o no” ma lei: “di’ tu, piuttosto, di’ qualcosa che valga per me, per noi, che ti guardiamo”, e va per una strada che non conosco, va, dove non è altro che lei, che loro, lì, nella gran fossa del firmamento algido, stipato di roba ultima, vagante, “di’, se sai, qualcosa che valga la pena”, continua stridendo come una stupida ferraglia e fa cenno, nel non so dove del sonno, nel ben maturato senno della mente a qualcosa che si cela, s’infima in brividi, in onde di niente, di poco – cosa che si fa cosa, verbo che s’intana in una lingua di troppo gelo, di solo, forse, vuoto? Giancarlo Pontiggia (Seregno, 1952), da Il moto delle cose (Mondadori, 2018)
Viandante, che tra il tuo passo per caso presso questo margo appartato, tra i fichi, i peschi, le ombre odorose della grande estate pensa che qui sovrastano, ai confini di un campo assediato, cieli più intensi e profondi del tempo che infierisce con orrendi oh non più presagi, ma con fionde, con ferite, clangori e lenti affioramenti di miasmi e di occhi infelici, lesi, tra soglie invase che nessuno più onora perché il tempo non è che la metà brutale, paurosa dei pensieri che sfiorano in questo mese di agosto che avanza le nere capitali del mondo colpito dove anche tu, già ormai oltre il cancello mortale dei miei versi, appari tra la fine di un secolo scuro e un altro ancora ignoto, troppo, per noi viventi e non viventi nel legno minaccioso delle stanze quando ancora premono le forze della vita che chiama, chiama e dice: resta, non fuggire, guarda! Giancarlo Pontiggia (Seregno, 1952), Con parole remote (Guanda, 1998)
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