Ovunque tu sia mi sei accanto. Stringo la tua cintura alla mia vita. Mia profonda fierezza. Ovunque io sia, tu sei vicino a me. Sei la cintura di sicurezza della mia vita; ti stringo, ti allaccio, sei tu che mi proteggi dagli sbandamenti dell’anima e del mondo, dalle violenze improvvise degli estranei e dalle assurdità senza nome. Che sollievo tornare al tuo abbraccio.
Prende in mano oggetti scompagnati – una pietra, una tegola rotta, due fiammiferi bruciati, il chiodo arrugginito del muro di fronte, la foglia entrata dalla finestra, le gocce che cadono dai vasi annaffiati, quel filo di paglia che ieri il vento portò sui tuoi capelli, – li prende e là nel suo cortile costruisce pressappoco un albero. In questo “pressappoco” sta la poesia. La vedi?
Quando si spegne il tramonto e si accende dentro di noi la vecchia lampada e tutte le voci mutano dall’ira alla tristezza e dal sobborgo se ne vanno i fruttivendoli ambulanti, gli arrotini, le erbivendole, gli ombrellai, allora dal pozzo della corte escono le lumache in doppia fila, e sopra i pubblici orinatoi resta il cielo di un blu profondo, completamente immobile, inchiodato solo da una stella arrugginita.
Non amava affatto gli uccelli, i fiori, gli alberi diventati simboli di idee, utilizzati allo stesso modo da schieramenti opposti. Lui tentava di riportarli al loro fondamento naturale. Le colombe, per esempio, non emblema di un’infinità di convegni, ma begli uccelli erotici, dal passo lento, che continuano a baciarsi becco a becco nel mio cortile e mi riempiono le mattonelle di escrementi e piume (mi piacciono così); o, al massimo, piccoli postini che portano al di sopra delle pallottole le lettere dei bambini poveri a Dio, in cui gli chiedono scarpe e quaderni e un po’ di caramelle. I gigli non emblemi di purezza, ma piante profumate e sensuali, dai petali spalancati che mostrano gli stami eretti con i pollini d’oro. E l’ulivo, non premio di vittoria o di pace ma genitore fruttifero che dà il buon olio per le nostre pietanze e per la lucerna, per gli arrossamenti del neonato e il ginocchio ferito del bambino irrequieto e disobbediente, e ancora per il modesto lume della Madonna. E io – disse – nient’affatto mito, eroe o dio, ma semplice operaio al pari di te, di te e dell’altro – proletario dell’arte innamorato sempre degli alberi, degli uccelli, degli animali e degli uomini, innamorato soprattutto della bellezza dei pensieri puliti e della bellezza dei corpi giovanili – un operaio che scrive, scrive incessantemente su tutti e tutto e ha un nome breve e facile a pronunciarsi: Ghiannis Ritsos.
E qualche volta trovate il tempo di andare in auto ad ovest in County Clare, lungo la Flaggy Shore, a settembre o ottobre, quando il vento e la luce si azzuffano così che da un parte l’oceano è pazzo di schiuma e bagliori, e all’interno fra le pietre la superficie di un lago color ardesia è illuminata dal lampo terrestre di uno stormo di cigni, le piume scompigliate e soffiate, bianco su bianco, le teste adulte dall’aria ostinata sommerse o affioranti o indaffarate sottacqua. Inutile pensare di posteggiare e cogliere la scena più completamente. Non sei né qua né là, una fretta per cui passano cose note e ignote mentre forti morbide folate prendono l’auto di sbieco e sorprendono il cuore sovrappensiero e lo aprono d’un soffio. Traduzione di Massimo Bacigalupo
Poesia n. 240 Luglio/Agosto 2009 I settant’anni di Seamus Heaney a cura di Massimo Bacigalupo
Da anni più nessuno si è occupato del giardino. Eppure quest’anno – maggio, giugno – è rifiorito da solo, è divampato tutto fino all’inferriata – mille rose, mille garofani, mille gerani, mille piselli odorosi – viola, arancione, verde, rosso e giallo, colori… tanto che la donna uscì di nuovo a dare l’acqua col suo vecchio annaffiatoio di nuovo bella, serena, con una convinzione indefinibile. E il giardino la nascose fino alle spalle, l’abbracciò, la conquistò tutta; la sollevò tra le sue braccia. E allora, a mezzogiorno in punto, vedemmo il giardino e la donna con l’annaffiatoio ascendere al cielo e mentre guardavamo in alto, alcune gocce dell’annaffiatoio ci caddero dolcemente sulle guance, sul mento, sulle labbra.
Bella esce dal porto la nave. Il fumo rosa nella polvere d’oro della sera. Dunque, per quante volte ti abbiano rifiutato o tu abbia rifiutato, una casa bianca sul colle chiede il tuo sguardo, un bambino si bagna i piedi in mare sorridendo, un uccello di notte canta anche per te. Dunque, rinviamo di nuovo; incoroniamo sul vetro incrinato questa piccola farfalla.