Grazia del ciel, come soavemente ti miri ne la terra abbeverata, anima fatta bella dal suo pianto! O in mille e mille specchi sorridente grazia, che da nuvola sei nata come la voluttà nasce dal pianto, musica nel mio canto ota t’effondi, che non è fugace, per me trasfigurata in alta pace a chi l’ascolti. Nascente Luna, in cielo esigua come il sopracciglio de la giovinetta e la midolla de la nova canna, sì che il più lieve ramo ti nasconde e l’occhio mio, se ti smarrisce, a pena ti ritrova, pel sogno che l’appanna, Luna, il rio che s’avvalla senza parola erboso anche ti vide; e per ogni fil d’erba ti sorride, solo a te sola. O nere e bianche rondini, tra notte e alba, tra vespro e notte, o bianche e nere ospiti lungo l’Affrico notturno! Volan elle sì basso che la molle erba sfioran coi petti, e dal piacere il loro volo sembra fatto azzurro. Sopra non ha sussurro l’arbore grande, se ben trema sempre. Non tesse il volo intorno a le mie tempie fresche ghirlande? E non promette ogni lor breve grido un ben che forse il cuore ignora e forse indovina se udendo ne trasale? S’attardan quasi immemori del nido, e sul margine dove son trascorse par si prolunghi il fremito dell’ale. Tutta la terra pare argilla offerta all’opera d’amore, un nunzio il grido, e il vespero che muore un’alba certa.
Pace, pace! La bella Simonetta adorna del fugace emerocàllide vagola senza scorta per le pallide ripe cantando nova ballatetta. Le colline s’incurvano leggiere come le onde del vento nella sabbia del mare e non fanno ombra, quasi d’aria. L’Arno favella con la bianca ghiaia, recando alle Nereidi tirrene il vel che vi bagnò forse la Grazia, forse il velo onde fascia la Grazia questa terra di Toscana escita della casalinga lana che fu l’arte sua prima. Pace, pace! Richiama la tua rima nel cor tuo come l’ape nel tuo bugno. Odi tenzon che in su l’estremo giugno ha la cicala con la lodoletta!
“Color di perla quasi informa, quale conviene a donna aver, non fuor misura”. Non è, Dante, tua donna che in figura della rorida Sera a noi discende? Non è non è dal ciel Betarice discesa in terra a noi bagnata il viso di pianto d’amore? Ella col lacrimar degli occhi suoi tocca tutte le spiche a una a una e cangia lor colore. Stanno come persone inginocchiate elle dinanzi a lei, a capo chino, umíli; e par si bei ciascuna del martiro che l’attende. Vince il silenzio i movimenti umani. Nell’aerea chiostra dei poggi l’Arno pallido s’inciela. Ascosa la Città di sé non mostra se non due steli alzati, torre d’imperio e torre di preghiera, a noi dolce com’era al cittadin suo prima dell’esiglio quand’ei tenendo nella mano un giglio chinava il viso tra le rosse bende. Color di perla per ovunque spazia e il ciel tanto è vicino che ogni pensier vi nasce come un’ala. La terra sciolta s’è nell’infinito sorriso che la sazia, e da noi lentamente s’allontana mentre l’Angelo chiama e dice:”Sire, nel mondo si vede meraviglia nell’atto, che procede da un’anima, che fin quassù risplende”.
Un falco stride nel color di perla: tutto il cielo si squarcia come un velo. O brivido su i mari taciturni, o soffio, indizio del súbito nembo! O sangue mio come i mari d’estate! La forza annoda tutte le radici: sotto la terra sta, nascosta e immensa. La pietra brilla più d’ogni altra inerzia. La luce copre abissi di silenzio, simile ad occhio immobile che celi moltitudini folli di desiri. L’Ignoto viene a me, l’Ignoto attendo! Quel che mi fu da presso, ecco, è lontano. Quel che vivo mi parve, ecco, ora è spento. T’amo, o tagliente pietra che su l’erta brilli pronta a ferire il nudo piede. Mia dira sete, tu mi sei più cara che tutte le dolci acque dei ruscelli. Abita nella mia selvaggia pace la febbre come dentro le paludi. Pieno di grida è il riposato petto. L’ora è giunta, o mia Mèsse, l’ora è giunta! Terribile nel cuore del meriggio pesa, o Mèsse, la tua maturità.
I. Figlio della Cicala e dell’Olivo, nell’orto di quel Fauno tu cogliesti la canna pel tuo flauto, pel tuo sufolo doppio a sette fóri? In quel che ha il nume agresto entro un’antica villa di Camerata deserta per la morte di Pampínea? O forse lungo l’Affrico che riga la pallida contrada ove i campi il cipresso han per confine? Più presso, nella Mensola che ride sotto il ponte selvaggia? Più lungi, ove l’Ombron segue la traccia d’Ambra e Lorenzo canta i vani ardori? Ma il mio pensier mi finge che tu colta l’abbia tra quelle mura che Arno parte, negli Orti Oricellari, ove dalla barbarie fu sepolta ahi sì trista, la Musa Fiorenza che cantò ne’ dì lontani ai lauri insigni, ai chiari fonti, all’eco dell’inclite caverne, quando di Grecia le Sirene eterne venner con Plato alla Città dei Fiori. Te certo vide Luca della Robbia, ti mirò Donatello, operando le belle cantoríe. Tutte le frutta della Cornucopia per forza di scalpello fecero onuste le ghirlande pie. E tu danzavi le tue melodie, nudo fanciul pagano, àlacre nel divin marmo apuano come nell’aria, conducendo i cori. Figlio della Cicala e dell’Olivo, or col tuo sufoletto incanti la lucertola verdognola a cui sopra la selce il fianco vivo palpita pel diletto in misura seguendo il dolce suono. Non tu conosci il sogno forse della silente creatura? Ver lei ti pieghi: in lei non è paura: tu moduli secondo i suoi colori. Tu moduli secondo l’aura e l’ombra e l’acqua e il ramoscello e la spica e la man dell’uom che falcia, secondo il bianco vol della colomba, la grazia del torello che di repente pavido s’inarca, la nuvola che varca il colle qual pensier che seren volto muti, l’amore della vite all’olmo l’arte dell’ape, il flutto degli odori. Ogni voce in tuo suono si ritrova e in ogni voce sei sparso, quando apri e chiudi i fóri alterni. Par quasi che tu sol le cose muova mentre solo ti bei nell’obbedire ai movimenti eterni. Tutto ignori, e discerni tutte le verità che l’ombra asconde. Se interroghi la terra, il ciel risponde; se favelli con l’acque, odono i fiori. O fiore innumerevole di tutta la vita bella, umano fiore della divina arte innocente, preghiamo che la nostra anima nuda si miri in te, preghiamo che assempri te maravigliosamente! L’immensa plenitudine vivente trema nel lieve suono creato dal virgineo tuo soffio, e l’uom cò suoi fervori e i suoi dolori. II. Or la tua melodia tutta la valle come un bel pensiere di pace crea, le due canne leggiere versando una la luce ed una l’ombra. La spiga che s’inclina per offerirsi all’uomo e il monte che gli dà pietre del grembo, se ben l’una vicina e l’altro sia rimoto e l’una esigua e l’altro ingente, sembra si giungano per l’aere sereno come i tuoi labbri e le tue dolci canne, come su letto d’erbe amato e amante, come i tuoi diti snelli e i sette fóri, come il mare e le foci, come nell’ala chiare e negre penne, come il fior del leandro e le tue tempie, come il pampino e l’uva, come la fonte e l’urna, come la gronda e il nido della rondine, come l’argilla e il pollice, come ne’ fiari tuoi la cera e il miele, come il fuoco e la stipula stridente, come il sentier e l’orma, come la luce ovunque tocca l’ombra. III. Sopor mi colse presso la fontana. Lo sciame era discorde: avea due re; pendea come due poppe fulve. E il rame s’udia come campana. Ti vidi nel mio sogno, o lene aulente. Lottato avevi ignudo contro il torrente folle di rapina. Raccolto avevi piuma di sparviere che a sommo del ciel muto in sue rote feria l’aer di strida. Ahi, lungi dalle tue musiche dita gittato avevi i calami forati. Chino con sopraccigli corrugati eri, fanciul pugnace, intento a farti archi da saettare col legno della flèssile avellana. IV. Eleggere sapesti il re splendente nello sciame diviso, ridere d’un tuo bel selvaggio riso spegnendo il fuco sterile e sonoro. Con la man tinta in mele di sosillo traesti fuor la troppa signoria. Cauto e fermo le calcavi. Sporgeva a modo d’uvero di poppa il buon sire tranquillo che fu re delle artefici soavi. Poi franco te n’andavi sonando per le prata di trifoglio, incoronato d’ellera e d’orgoglio, entro la nube delle pecchie d’oro. V. L’acqua sorgiva fra i tuoi neri cigli fecesi occhio che vede e che sorride; fecesi chioma su la tua cervice il crespo capelvenere. Fatto sei di segreto e di freschezza. Fatte son di làtice fluido e d’umide fibre le tue membra. Il tuo spirto, dal fonte come il salice ma senza l’amarezza nato, le amiche naiadi rimembra; tutte le polle sembra trarre per le invisibili sue stirpi. E se gli occhi tuoi cesii han neri cigli, ha neri gambi il verde capelvenere. Converse le tue canne sono in chiari vetri, onde lenti i suoni stillano come gocce da clessidre. S’appressano i colúbri maculosi, gli aspidi i cencri e gli angui e le ceraste e le verdissime idre. Taciti, senza spire, eretti i serpi bevono l’incanto. Sol le bífide lingue a quando a quando tremano come trema il capelvenere. Sino ai ginocchi immerso nella cupa linfa, alla venenata greggia tu moduli il tuo lento carme. Par che da’ piedi tuoi torta sia nata radice e di natura erbida par ti sien fatte le gambe. Ma il fior della tua carne suso come il nénufaro s’ingiglia. E se gli occhi tuoi cesii han nere ciglia, neri ha gli steli il verde capelvenere. VI. Se t’è l’acqua visibile negli occhi e se il làtice nudre le tue carni, viver puoi anco ne’ perfetti marmi e la colonna dorica abitare. Natura ed Arte sono un dio bifronte che conduce il tuo passo armonioso per tutti i campi della Terra pura. Tu non distingui l’un dall’altro volto ma pulsare odi il cuor che si nasconde unico nella duplice figura. O ignuda creatura, teco salir la rupe veneranda voglio, teco offerire una ghirlanda del nostro ulivo a quell’eterno altare. Torna con me nell’Ellade scolpita ove la pietra è figlia della luce e sostanza dell’aere è il pensiere. Navigando nell’alta notte illune, noi vedremo rilucere la riva del diurno fulgor ch’ella ritiene. Stamperai nelle arene del Fàlero orme ardenti. Ospiti soli presso Colòno udremo gli usignuoli di Sofocle ad Antigone cantare. Vedremo nei Propílei le porte del Giorno aperte, nell’intercolumnio tutto il cielo dell’Attica gioire; nel tempio d’Erettèo, coro notturno dai negricanti pepli le sopposte vergini stare come urne votive; la potenza sublime della Citta, transfusa in ogni vena del vital marmo ov’è presente Atena, regnar col ritmo il ciel la terra il mare. Alcun arbore mai non t’avrà dato gioia sì come la colonna intatta che serba i raggi ne’ suoi solchi eguali. All’ora quando l’ombra sua trapassa i gradi, tu t’assiderai sul grado più alto, cò tuoi calami toscani. La Vittoria senz’ali forse t’udrà, spoglia d’avorio e d’oro; e quella alata che raffrèna il toro; e quella che dislaccia il suo calzare. Taci! La cima della gioia è attinta. Guarda il Parnete al ciel, come leggiero! Guarda l’Imetto roscido di miele! Flessibile m’appar come l’efebo, vestito della clamide succinta, che cavalcò nelle Panatenee. Sorse dall’acque egee il bel monte dell’api e fu vivente. Or tuttavia nella sua forma ei sente la vita delle belle acque ondeggiare. Seno d’Egina! Oh isola nutrice di colombe e d’eroi! Pallida via d’Eleusi coi vestigi di Demetra! Splendore della duplice ferita nel fianco del Pentelico! Armonie del glauco olivo e della bianca pietra! Ogni golfo è una cetra. Tu taci, aulete, e ascolti. Per l’Imetto l’ombra si spande. Il monte violetto mormora e odora come un alveare. VII. L’odo fuggir tra gli arcipressi foschi, e l’ansia il cor mi punge. Ei mi chiama di lunge solo negli alti boschi, e s’allontana. Mutato è il suon delle sue dolci canne. Trèmane il cor che l’ode, balza se sotto il pièstrida l’arbusto; pavido è fatto al rombo del suo sangue, ed altro più non ode il cor presàgo di remoto lutto. Prego: “O fanciul venusto, non esser sì veloce ch’io non ti giunga!” E’ vana la mia voce. Melodiosamente ei s’allontana. Elci nereggian dopo gli arcipressi, antiqui arbori cavi. Pascono suso in ciel nuvole bianche. A quando a quando tra gli intrichi spessi le nuvole soavi son come prede tra selvagge branche. E sempre odo le canne gemere d’ombra in ombra roche quasi richiamo di colomba che va di ramo in ramo e s’allontana. “O fanciullo fuggevole, t’arresta! Tu non sai com’io t’ami, intimo fiore dell’anima mia. Una sol volta almen volgi la testa, se te la inghirlandai, bel figlio della mia melancolia! Con la tua melodia fugge quel che divino era venuto in me, quasi improvviso ritorno dell’infanzia più lontana. Fa che l’ultima volta io t’incoroni, pur di negro cipresso, e teco io sia nella dolente sera!” Ei nell’onda volubile dei suoni con un gentil suo gesto, simile a un spirto della primavera, volgesi; alla preghiera sorride, e non l’esaude. L’ansia mia vana odo sol tra le pause, mentre che d’ombra in ombra ei s’alontana. Ad un fonte m’abbatto che s’accoglie entro conca profonda per aver pace, e un elce gli fa notte. “O figlio, sosta! Imiterai le foglie e l’acque anche una volta e i silenzii del dì con le tue note. Sediamo in su le prode. Fa ch’io veda l’imagine puerile di te presso l’imagine di me nel cupo speglio!” Ei s’allontana. S’allontana melodiosamente nè più mi volge il viso, emulo di Favonio ei nel suo volo. Sol calando, la plaga d’occidente s’infiamma; e d’improvviso tutta la selva è fatta un vasto rogo. Le nuvole di foco ardono gli elci forti, aerie vergini al disio dei mostri. Giunge clangor di buccina lontana. E un tempio ecco apparire, alte ruine cui scindon le radici errabonde. Gli antichi iddii son vinti. Giaccion tronche le statue divine cadute dai fastigi; dormono in bruni pepli di corimbi. Lentischi e terebinti l’odor dei timiami fan loro intorno. “O figlio, se tu m’ami, sosta nel luogo santo!” Ei s’allontana. “Rialzerò le candide colonne, rialzerò l’altare e tu l’abiterai unico dio. M’odi: te l’ornerò con arti nuove. E non avrà l’eguale. Maraviglioso artefice son io. T’adorerò nel mio petto e nel tempio. M’odi, figlio! Che immortalmente io t’incoroni!” Nel gran fuoco del vespro ei s’allontana. Si dilegua ne’ fiammei orizzonti Forse è fratel degli astri. O forse nel mio sogno s’è converso? “Ti cercherò, ti cercherò ne’ monti, ti cercherò per gli aspri torrenti dove ti sarai deterso. E ti vedrò diverso! Gittato avrai le canne, intento a farti archi da saettare col legno della flèssile avellana”.
Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove su i pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti, piove su i nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione. Odi? La pioggia cade su la solitaria verdura con un crepitío che dura e varia nell’aria secondo le fronde più rade, men rade. Ascolta. Risponde al pianto il canto delle cicale che il pianto australe non impaura, nè il ciel cinerino. E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancóra, stromenti diversi sotto innumerevoli dita. E immersi noi siam nello spirto silvestre, d’arborea vita viventi; e il tuo volto ebro è molle di pioggia come una foglia, e le tue chiome auliscono come le chiare ginestre, o creatura terrestre che hai nome Ermione. Ascolta, ascolta. L’accordo delle aeree cicale a poco a poco più sordo si fa sotto il pianto che cresce; ma un canto vi si mesce più roco che di laggiù sale, dall’umida ombra remota. Più sordo e più fioco s’allenta, si spegne. Sola una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non s’ode voce del mare. Or s’ode su tutta la fronda crosciare l’argentea pioggia che monda, il croscio che varia secondo la fronda più folta, men folta. Ascolta. La figlia dell’aria è muta; ma la figlia del limo lontana, la rana, canta nell’ombra più fonda, chi sa dove, chi sa dove! E piove su le tue ciglia, Ermione. Piove su le tue ciglia nere sìche par tu pianga ma di piacere; non bianca ma quasi fatta virente, par da scorza tu esca. E tutta la vita è in noi fresca aulente, il cuor nel petto è come pesca intatta, tra le pàlpebre gli occhi son come polle tra l’erbe, i denti negli alvèoli con come mandorle acerbe. E andiam di fratta in fratta, or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i mallèoli c’intrica i ginocchi) chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri m’illuse, che oggi t’illude, o Ermione.
Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscío che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta su l’alta scala che s’annera contro il fusto che s’inargenta con le sue rame spoglie mentre la Luna è prossima a le soglie cerule e par che innanzi a sé distenda un velo ove il nostro sogno si giace e par che la campagna già si senta da lei sommersa nel notturno gelo e da lei beva la sperata pace senza vederla. Laudata sii pel tuo viso di perla, o Sera, e pè tuoi grandi umidi occhi ove si tace l’acqua del cielo! Dolci le mie parole ne la sera ti sien come la pioggia che bruiva tepida e fuggitiva, commiato lacrimoso de la primavera, su i gelsi e su gli olmi e su le viti e su i pini dai novelli rosei diti che giocano con l’aura che si perde, e su ‘l grano che non è biondo ancóra e non è verde, e su ‘l fieno che già patì la falce e trascolora, e su gli olivi, su i fratelli olivi che fan di santità pallidi i clivi e sorridenti. Laudata sii per le tue vesti aulenti, o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce il fien che odora! Io ti dirò verso quali reami d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti eterne e l’ombra de gli antichi rami parlano nel mistero sacro dei monti; e ti dirò per qual segreto le colline su i limpidi orizzonti s’incúrvino come labbra che un divieto chiuda, e perché la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire e nel silenzio lor sempre novelle consolatrici, sì che pare che ogni sera l’anima le possa amare d’amor più forte. Laudata sii per la tua pura morte o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare le prime stelle!
Laudata sia la spica nel meriggio! Ella s’inclina al Sole che la cuoce, verso la terra onde umida erba nacque; s’inclina e più s’inclinerà domane verso la terra ove sarà colcata col gioglio ch’è il malvagio suo fratello, con la vena selvaggia col cíano cilestro col papavero ardente cui l’uom non seminò, in un mannello. E’ di tal purità che pare immune, sol nata perché l’occhio uman la miri; di sì bella ordinanza che par forte. Le sue granella sono ripartite con la bella ordinanza che c’insegna il velo della nostra madre Vesta. Tre son per banda alterne; minore è il granel medio; ciascuno ha la sua pula; d’una squammetta nasce la sua resta. Matura anco non è. Verde è la resta dove ha il suo nascimento dalla squamma, però tutt’oro ha la pungente cima. E verdi lembi ha la già secca spoglia ove il granello a poco a poco indura ed assume il color della focaia. E verdeggia il fistuco di pallido verdore ma la stípula è bionda. S’odon le bestie rassodare l’aia. Dice il veglio: “Nè luoghi maremmani già gli uomini cominciano segare. E in alcuna contrada hanno abbicato. Tu non comincerai, se tu non veda tutto il popolo eguale della mèsse egualmente risplender di rossore”. E la spica s’arrossa. Brilla il fil della falce, negreggia il rimanente, di stoppia incenerita è il suo colore. E prima la sudata mano e poi il ferro sentirànel suo fistuco la spica; e in lei saran le sue granella, in lei saràla candida farina che la pasta farà molto tegnente e farà pane che molto ricresce. Ma la vena selvaggia ma il cíano cilestro ma il papavero ardente con lei cadranno, ahi, vani su le secce. E la vena pilosa, or quasi bianca, è tutta lume e levità di grazia; e il cíano rassembra santamente gli occhi cesii di Palla madre nostra; e il papavero è come il giovenile sangue che per ispada spiccia forte; e tutti sono belli belli sono e felici e nel giorno innocenti; e l’uom non si dorrà di loro sorte. E saranno calpesti e della dolce suora, che tanto amarono vicina, che sonar per le reste quasi esigua cítara al vento udirono, disgiunti; e sparsi moriran senza compianto perché non danno il pane che nutrica. Ma la vena selvaggia e il cíano cilestro e il papavero ardente laudati sien da noi come la spica!
O Marina di Pisa, quando folgora il solleone! Le lodolette cantan su le pratora di San Rossore e le cicale cantano su i platani d’Arno a tenzone. Come l’Estate porta l’oro in bocca, l’Arno porta il silenzio alla sua foce. Tutto il mattino per la dolce landa quinci è un cantare e quindi altro cantare; tace l’acqua tra l’una e l’altra voce. E l’Estate or si china da una banda or dall’altra si piega ad ascoltare. E’ lento il fiume, il naviglio è veloce. La riva è pura come una ghirlanda. Tu ridi tuttavia cò raggi in bocca, come l’Estate a me, come l’Estate! Sopra di noi sono le vele bianche sopra di noi le vele immacolate. Il vento che le tocca tocca anche le tue palpebre un po’ stanche, tocca anche le tue vene delicate; e un divino sopor ti persuade, fresco ne’ cigli tuoi come rugiade in erbe all’albeggiare. S’inazzurra il tuo sangue come il mare. L’anima tua di pace s’inghirlanda. L’Arno porta il silenzio alla sua foce come l’Estate porta l’oro in bocca. Stormi d’augelli varcano la foce, poi tutte l’ali bagnano nel mare! Ogni passato mal nell’oblio cade. S’estingue ogni desio vano e feroce. Quel che ieri mi nocque, or non mi nuoce; quello che mi toccò, più non mi tocca. E’ paga nel mio cuore ogni dimanda, come l’acqua tra l’una e l’altra voce. Così discendo al mare; così veleggio. E per la dolce landa quinci è un cantare e quindi altro cantare. Le lodolette cantan su le pratora di San Rossore e le cicale cantano su i platani d’Arno a tenzone.
Dèspota, andammo e combattemmo, sempre fedeli al tuo comandamento. Vedi che l’armi e i polsi eran di buone tempre. O magnanimo Dèspota, concedi al buon combattitor l’ombra del lauro, ch’ei senta l’erba sotto i nudi piedi, ch’ei consacri il suo bel cavallo sauro alla forza dei Fiumi e in su l’aurora ei conosca la gioia del Centauro. O Dèspota, ei sarà giovine ancóra! Dàgli le rive i boschi i prati i monti i cieli, ed ei sarà giovine ancóra Deterso d’ogni umano lezzo in fonti gelidi, ei chiederà per la sua festa sol l’anello degli ultimi orizzonti I vènti e i raggi tesseran la vesta nova, e la carne scevra d’ogni male éntrovi balzerà leggera e presta. Tu ‘l sai: per t’obbedire, o Trionfale, sí lungamente fummo a oste, franchi e duri; né il cor disse mai “Che vale?” disperato di vincere; né stanchi mai apparimmo, né mai tristi o incerti, ché il tuo volere ci fasciava i fianchi. O Maestro, tu ‘l sai: fu per piacerti. Ma greve era l’umano lezzo ed era vile talor come di mandre inerti; e la turba faceva una Chimera opaca e obesa che putiva forte sí che stretta era all’afa la gorgiera. Gli aspetti della Vita e della Morte invano balenavan sul carname folto, e gli enimmi dell’oscura sorte. Non era pane a quella bassa fame la bellezza terribile; onde il tardo bruto mugghiava irato sul suo strame. Pur, lieta maraviglia, se alcun dardo tutt’oro gli giungea diritto insino ai precordii, oh il suo fremito gagliardo! E tu dicevi in noi: “Quel ch’è divino si sveglierà nel faticoso mostro. Bàttigli in fronte il novo suo destino”. E noi perseverammo, col cuor nostro ardente, per piacerti, o Imperatore; e su noi non potè ugna nè rostro. Ma ne sorse per mezzo al chiuso ardore la vena inestinguibile e gioconda del riso, che sonò come clangore. E ad ogni ingiuria della bestia immonda scaturiva più vivido e più schietto tal cristallo dall’anima profonda. Erma allegrezza! Fin lo schiavo abietto, sfumato con le miche del convito, lungi rauco latrava il suo dispetto; e l’obliqio lenone, imputridito nel vizio suo, dal lubrico angiporto con abominio ci segnava a dito. O Dèspota, tu dài questo conforto al cuor possente, cui l’oltraggio èlode e assillo di virtù ricever torto. Ei nella solitudine si gode sentendo sé come inesausto fonte Dedica l’opre al Tempo; e ciò non ode. Ammonisti l’alunno: “Se hai man pronte, non iscegliere i vermini nel fimo ma strozza i serpi di Laocoonte”. Ed ei seguì l’ammonimento primo; restò fedele ai tuoi comandamenti; fiso fu ne’ tuoi segni a sommo e ad imo. Dèspota, or tu concedigli che allenti il nervo ed abbandoni gli ebri spirti alle voraci melodíe dei vènti! Assai si travagliò per obbedirti. Scorse gli Eroi su i prati d’asfodelo. Or ode i Fauni ridere tra i mirti. l’Estate ignuda ardendo a mezzo il cielo.
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