Dammi la mano e danzeremo dammi la mano e mi amerai come un solo fior saremo come un solo fiore e niente più. Lo stesso verso canteremo con lo stesso passo ballerai. Come una spiga onduleremo come una spiga e niente più. Ti chiami Rosa ed io Speranza però il tuo nome dimenticherai perché saremo una danza sulla collina e niente più.
La bruma spessa, eterna, affinchè dimentichi dove mi ha gettato il mare nella sua onda di salamoia. La terra nella quale venni non ha primavera: ha la sua notte lunga che quale madre mi nasconde. Il vento fa alla mia casa la sua ronda di singhiozzi e di urlo, e spezza, come un cristallo, il mio grido. E nella pianura bianca, di orizzonte infinito, guardo morire immensi occasi dolorosi. Chi potrà chiamare colei che sin qui è venuta se più lontano di lei solo andarono i morti ? Tanto solo loro contemplano un mare tacito e rigido crescere tra le sue braccia e le braccia amate! Le navi le cui vele biancheggiano nel porto vengono da terre in cui non ci sono quelli che sono miei ; i loro uomini dagli occhi chiari non conoscono i miei fiumi e recano frutti pallidi, senza la luce dei miei orti. E l´interrogazione che sale alla mia gola al vederli passare, mi riscende, vinta: parlano strane lingue e non la commossa lingua che in terre d´oro la mia povera madre canta. Guardo scendere la neve come la polvere nella fossa; guardo crescere la nebbia come l´agonizzante, e per non impazzire non conto gli istanti, perchè la notte lunga ora solo comincia. Guardo il piano estasiato e racccolgo il suo lutto, perchè venni per vedere i paesagggi mortali. La neve è il sembiante che svela i miei cristalli; sempre sarà il suo biancore che scende dal cielo ! Sempre essa, silenziosa, come il grande sguardo di Dio su di me; sempre la sua zagara sopra la mia casa; sempre, come il destino che non diminuisce ne passa, scenderà a coprirmi, terribile e estasiata.
Non cantare: resta sempre attaccato sulla tua lingua un canto; quello che doveva essere trasmesso. Non baciare: resta sempre per una strana maledizione il bacio che non viene su dal cuore. Prega: pregare è dolce: però sappi che la tua lingua avara non giunge a dire il solo Padre Nostro che ti salvi. E non chiamare come clemente la morte, perché nel corpo di bianchezza immensa resterà un vivo brandello che sente la pietra che ti soffoca ed il vorace verme che ti fora.
Non stringere le mie mani. Verrà il tempo infinito di riposare con molta polvere ed ombra tra le dita intrecciate. E tu dirai: ‘Non posso più amarla; le sue dita si sgranarono come le spighe’. La mia bocca non baciare. Verrà l’istante pieno di spenta luce, senza labbra starò sotto un umido suolo. E tu dirai: ‘L’amai, ma non posso amarla più, ora che non aspira l’odore di ginestre del mio bacio’. E mi rattristerò nell’udirti; tu parlerai come un cieco ed un pazzo, perché la mia mano sarà sulla tua fronte quando le dita si spezzino, e scenderà sopra il tuo volto pieno d’ansia, il mio respiro. Non mi toccare dunque. Mentirei nel dirti che ti dono il mio amore nelle braccia mie protese, nella mia bocca, nel mio collo, e tu, credendo d’averlo esaurito ti sbaglieresti come un bambino ingenuo. Perché il mio amore non è solo questo stanco e restio covone del mio corpo, che trema tutto offeso dal cilicio e in ogni volo mi resta indietro. È ciò che sta nel bacio e non nel labbro, ciò che spezza la voce e non il petto: ma è un vento di Dio, che passa lacerando nel suo volo, la polpa delle carni.
Ricordo il tuo viso, fissato nei miei giorni, donna con gonna azzurra e con fronte abbronzata; quando nella mia infanzia, in terra mia d’ambrosia, ti vidi aprire un solco nero in un ardente aprile. Nella fonda taverna, l’impura coppa alzava, chi un figlio appiccicò al tuo petto di giglio; sotto questo ricordo, che t’era bruciatura, cadeva dalla mano, serena, la semente. Io ti vidi in gennaio segare il grano al figlio, e in te, senza capire, trovai quegli occhi fissi, ugualmente ingranditi da meraviglia e da pianto. E ancora bacerei il fango dei tuoi piedi, perché tra cento donne non ho visto il tuo volto, e l’ombra tua nei solchi, seguo ancora nel mio canto.
Se ti odiassi, il mio odio ti darei con le parole, rotondo e sicuro; ma ti amo e il mio amore non si affida a questa lingua umana, così oscura! Tu lo vorresti mutato in un grido, e vien così dal fondo che ha disfatto la sua ardente fiumana, sfinito prima ancora della gola e del petto. Io sono come uno stagno ricolmo ed a te sembro una sorgente inerte, per questo mio silenzio tormentoso più atroce che entrare nella morte!
In una notte spuntò dal mio petto, salì, crebbe la pianta di lutto, urtò le ossa, aprì le carni, la sua cima raggiunse il mio capo. Sulle spalle, sopra il dorso, gettò fronde, spinse rami e in tré giorni ne fui coperta, ricca come del mio sangue. Dove mi palpano adesso? Che braccio darò che non sia lutto? Al modo delle fumate non son più fiamma ne brace. Son questa spirale e liana, questo cerchio di fumo denso. Ancora quelli che giungono mi chiamano a nome, mi vedono il viso; ma io che soffoco mi vedo albero divorato e fumoso, buio notturno, carbone consunto, ginepro fitto, falso cipresso, certo per gli occhi, sfuggente alla mano, In una notte appena si fece il mio lutto nel labirinto del mio corpo e soverchiò il mio respiro notte e fumo che chiaman lutto e che mi avvolge e mi accieca. Il mio ultimo albero non è sulla terra, non vien da seme ne è di legno, non fu piantato, non pericola. Son io stessa il mio cipresso, il mio dar ombra e il mio contorno, il mio sudario non cucito, il mio sogno che cammina pianta di fumo, ad occhi aperti. Nel tempo che dura una notte cadde il mio sole, sparì il mio giorno, la mia carne si fece fumo che un bimbo taglia con la mano. II colore sfuggì alle mie vesti, svanirono il bianco, l’azzurro, e al mattino mi trovai ch’ero un pino di faville. Vedono andare un pino di fumo, m’odono dietro il mio fumo parlare e saran stanchi di amarmi, di vivere e di mangiare sotto un triangolo oscuro ingannevole e crocefisso che non getta più la resina e non ha radici e germogli. Un solo colore nelle stagioni, nient’altro che un fianco di fumo e mai un grappolo di pigne per fare il fuoco, la cena e la gioia.
Distesa lamina d’oro e nell’adagiarsi dorato due corpi come gomitoli d’oro; un corpo glorioso che ascolta e un corpo glorioso che parla nel prato in cui nulla parla; un respiro che va al respiro e un volto che trema d’esso, in un prato in cui nulla trema. Ricordarsi del triste tempo in cui entrambi avevano Tempo e da esso vivevano afflitti, nell’ora del chiodo d’oro in cui il Tempo restò alla soglia come i cani vagabondi…
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