La sola cosa che ricordo di lui è che allungava ad arte le parole un poco le cantava le finali carezzandosi il viso con la spalla e lui sapeva di chi e perché. Poca roba, trascurabile dettaglio. La prima cosa che gli chiederò quando lo incontrerò dall’altra parte sarà di carezzarmi una parola allungandone l’eco con la spalla.
Nell’esercizio della memoria i volti della quarta elementare che la foto risveglia prendono in me vezzi e cadenze e ciuffi e occhi e versi ricorrenti. Mi scorgo in uno di quei volti e vezzi il terzo da sinistra, quello biondo. E pure, sarà forse il far del tempo, a lui non tengo più che agli altri, ma ora a questo ora a quello il corpo muovo.
Il nome del tuo sogno già veste grembiuli di lana. La farina della sorgente dalla roccia scorre fin nell’acqua di palude risucchia i piedi di te tersa nube fra le nubi.
a Stefania Io conosco quella dei vincitori vibra di spruzzi pance in aria percosse alle ombre scure. Invece la danza della tribù fa muovere a vampate il dio di carne. La razza rivale per placarla inscena la danza della pioggia. Di là d’ogni parola la danza dei santi è il sereno ondeggiare della vita. Ma un’altra danza m’infiocchetta il cuore o saltellio giocoso dei piedi tuoi fra le coperte in festa…
Il lembo vellutato del vestito a macchie di fragola si acquattava sul cranio pallido del maestro francese al pianoforte. L’ansia distratta di lei raccoglieva silenzi mielosi margherite di raso nel pubblico a cappelli raccogliticcio dalla valanga appena sventata di là dalla finestra per nuovi messia intagliati nell’alba; girava le spalle nude accostava la parete si poggiava sul davanzale di neve concepiva nella sua mente il nano della montagna.
Postino, tu non porti più le lettere, hai la borsa piena di depliant, di distinte di studi di avvocati, di bollette del canone e del gas. Orsù, svuota nel fiume la tua sacca cerca un biglietto per me scarabocchiato che me ne porti il tatto della mano… o forse è un campioncino rovesciato.
La tua pallida aura conficcata nella ricognizione di nubi esistenziali mielose edulcorate da ineffabili sofferenze che intiepidiscono questo sorriso sopraggiunto quieto, e ti infervora l’arcano che ripercorri in una parata di scacchi blu e bianchi risalendo la sensazione di spruzzi d’acqua sulla pelle sei tu pure un sapore era tutto dapprincipio uno zero senza memoria. Inseguirò i tuoi boccoli fin nel bosco di marmo dei tuoi sogni di notte.
Ho un paio di scarpe nuove camminano ch’è un piacere. E come corrono! stento a tenergli dietro. Non temono palude né acquitrino, né deserto di sabbia né muraglia di pedoni, che risse che baruffe che clamori sempre mi vanno dentro. Ora non soffro più la lontananza di crocicchio in crocicchio io so che vengo a te; ma tu, non cambiar veste, non farti scoraggiare da quei lampi, io vengo a piedi. Dicono che in Canada giungono a volte piedi d’uomo da soli a riva, ce li porta il mare, strappati a chissà chi che forse andare oltre non voleva, un piede nella scarpa prigioniero laggiù, terre lontane. Oh come va veloce questo globo però non so se corro insieme a lui o se incontinente gli vo incontro eppure le ho pagate pochi soldi alla fiera di marzo.
Quando andrete a perquisire le valli e il capretto sterile sarà rinchiuso per un’ora di pallido amore, ricordate di quanti non hanno saputo intenerire le folle, di quanti hanno sorriso di nulla e godono di un codice sereno, perché non vi ha più pace per gli involucri vuoti, perché sono sepolti gli spiriti bugiardi e le leccornie pullulano di sensi torbidi e tumori. Da oggi, la terra sarà degli amanti.
Il sorriso di lei ti ha generato e tu, pensiero di carne, esclamazione di cartone, per non avere arte né certezze né parole sorridi. Poi ho visto l’interessere di noi molecole infinito. Ho pianto lacrime di gioia senza orologi; quindi ho preso a camminare scrivere versi, gemere canzoni, temere punture, evitare dirupi farmi rosso in viso io, la vergogna degli illuminati.
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