Gli scricchiolii notturni e quel silenzio irreale: foglie, voci lontane, uno sciaquìo forse di grossi pesci nel lago. Anche la luna che passa ha la sua voce lunare, di capra gialla. Ed è il tuo turno, stavolta, di vegliare su me, sul mio respiro che ogni poco svanisce nel buio. Ma non pensarci, se puoi, non preoccupartene; so troppo bene cos’è svegliarsi di notte, tendere invano l’orecchio, maledire il nulla che ti attornia, un muro inerte. Fabio Pusterla (Mendrisio, 1957) da Le terre emerse. Poesie scelte 1985-2008 (Einaudi, 2009)
Mi segui con un pensiero, sei un pensiero che non devo nemmeno pensare, come un brivido mi strini piano la pelle, muovi gli occhi verso un punto chiaro di luce. Sei un ricordo perduto e luminoso, sei il mio sogno senza sogno e senza ricordi, la porta che chiude e apre sulla corrente di un fiume impetuoso. Sei una cosa che nessuna parola può dire e che in ogni parola risuona come l’eco di un lento respiro, sei il mio vento di foglie e primavere, la voce chiama da un posto che non so e riconosco e che è mio. Sei l’ululato di un lupo, la voce del cervo vivo e ferito a morte. Il mio corpo stellare. Fabio Pusterla
(Mendrisio, 1957), daCorpo stellare(Marcos Y Marcos, 2010)
Del resto: non è questione di aeroporti, questo mai. Né partenza né arrivo possibili. Voli, tragitti di luna e di buio, precipizi dell’aria. Ali mitragliate, da cui passano meglio la luce e la nebbia, ali sconvolte e spiegate. E questa immensa solitudine, dentro la quale a volte risuonano voci, messaggi. Solitudine, rapidi incontri d’astri, viaggi che non finiscono, ponti crollati. E giù, sulla crosta terrosa dei campi deserti, strisce di tracce e zampe, stoppie e orme. Fabio Pusterla
(Mendrisio, 1957), daCorpo Stellare(Marcos y Marcos, 2010)
Quasi illeggibili ormai le parole. Vi si arriva seguendo crosci d’acqua misteriosi, scale nere consunte e ad ogni svolta un cunicolo che vaga nel silenzio di un muro o di una tenebra analfabeta e muta. Scancellata dal tempo, l’iscrizione sopravvive solamente nelle aule scolastiche: le prime sillabe vere della lingua che parliamo sono sillabe di scherno e di potere, ordini secchi e ingiurie di un padrone ai suoi servi, e anche un invito alla tortura di un uomo troppo clemente e forse santo: «traite, fili de le pute. Traite!». Ma Gosmario Albertello e Carvoncelle: chi erano? Che paure o speranze li agitavano? Possiamo forse immaginarli nelle sere dell’Urbe piegati di fatica mentre imprecano e cercano dentro il caldo di giugno un altro caldo forse di pane o di donna nei dolori di un tempo senza tempo né futuro, senza ieri o domani e senza pace o salvezza. E se mille anni più tardi il vento di un refuso da computer spazza via una dentale, Albertello, il povero Albertello si trasforma sulla nitida dispensa in Alberello. «Professore che albero era questo alberello, poi? Forse una quercia? Una betulla? Un acero?» potrebbero chiedere allora in buona o cattiva coscienza legioni di studenti. «Era davvero un alberello, carissimi, antenato dei vostri genitori e di voi stessi; un alberello meraviglioso e precario dentro il bosco della storia di noi tutti, fragilissimo e fiero, prigioniero innocente o colpevole travolto dall’incendio dei giorni che divampano e scompaiono nel vento e si traducono in un sospetto d’erba e di luce e di prato, in una curva imprecisa del terreno, e ancora in meno, sapete, ancora in nulla o quasi nulla, come un sasso, o un frammento di sasso, o un po’ di polvere che ondeggia sopra un fiume e poi scompare, in una cenere spersa, in un velo di ossa frantumate. Ma Alberello/ Albertello e i suoi amici sgraziati, figli di buona donna come ogni povero cristo, miseri schiavi, schiene da frustare, carne inessenziale e non memorabile, parlavano come parliamo noi, nel nostro affannoso dialetto. Non vi basta a guardarli, cari, con reverenza ed affetto?» Fabio Pusterla (Mendrisio, 1957), dall’inedito Argéman (lapoesiaelospirito.wordpress.com)
Gli scricchiolii notturni e quel silenzio irreale: foglie, voci lontane, uno sciacquìo forse di grossi pesci nel lago. Anche la luna che passa ha la sua voce lunare, di capra gialla. Ed è il tuo turno, stavolta, di vegliare su me, sul mio respiro che ogni poco svanisce nel buio. Ma non pensarci, se puoi, non preoccupartene; so troppo bene cos’è svegliarsi di notte, tendere invano l’orecchio, maledire il nulla che ti attornia, un muro inerte. Fabio Pusterla (Mendrisio, 1957), daPietra sangue (Marcos y Marcos,1999)
Crepacci la circondano, le smorfie raggelate del ghiaccio che si sgretola. Dall’alto franano sordi blocchi di granito. E se un camoscio, o uno stambecco troppo audace, si avventurasse sui costoni e con uno scarto nervoso scivolasse sulle pietraie in un gorgo di luce, qui sarebbe inghiottito e nessuno lo saprebbe mai. Fabio Pusterla (Mendrisio, 1957), da Pietra sangue (Marcos y Marcos, 1999) Le cose riflettono la volontà dell’autore di aderire alla superficie del reale (dal punto di vista stilistico ciò è evidente nelle descrizioni, nelle enumerazioni, nella tendenza alla nominazione (Questo è un fiume) o presentativa (C’è il silenzio)). Lo sguardo è una componente essenziale dei suoi versi, ma per ottenere un effetto opposto a quello del soggettivismo: ci osservano / le cose, il loro immobile / resistere a quel vento. Il poeta vuole cioè far uscire la luce dalle cose attraverso le parole, di cui purtroppo è incrostata la storia umana. In questo egli deve lavorare come gli artigiani della Valle Intelvi, che usavano sette tipi di pietre per rifinire gli intonaci, l’ultima delle quali era l’ematite, la pietra sangue, per far uscire la luce dalla materia difettosa. Lo sguardo deve saper essere spoglio per rinunciare al possesso delle cose (v. Appunti di luce e sabbia) e l’io deve darsi da parte, mettersi in ascolto. Roberto Cescon
La rosa che non vuoi ricevere quella che non puoi offrire cresce nella sua gloria senza nome, sopra scarpate o ghiacci nel silenzio, ma cresce solitaria fuori dal tempo, fuori dallo spazio visibili; sta lì a ricordare la cosa che hai visto una volta, sta lì a ricordare la rosa. Fabio Pusterla (Mendrisio, 1957) da Argéman (Marcos y Marcos, 2014)
L’erosione cancellerà le Alpi, prima scavando valli, poi ripidi burroni, vuoti insanabili che preludono al crollo. Lo scricchiolio sarà il segnale di fuga: questo il verdetto. Rimarranno le pozze, i montaruzzi casuali, le pause di riposo, i sassi rotolanti, le caverne e le piane paludose. Nel mondo Nuovo rimarranno, cadute principali e alberi sintattici, sperse certezze e affermazioni, le parentesi, gli incisi e le interiezioni: le palafitte del domani. Fabio Pusterla (Mendrisio, 1957), da Concessione all’inverno (Marcos y Marcos, 1985) Nella prima raccolta dell’autore, Concessione all’inverno (1985), il soggettodi fronte al male della storia è spaesato, risentito (una ragione di questa rabbia è il trauma della guerra – il padre deportato in Germania dopo la ritirata di Russia – che continua ad essere vissuto nel pensiero in tempo di pace), disincantato di fronte all’insensatezza della realtà, con atteggiamento anche sarcastico. È la rabbia inespressa e covata che genera la nevrastenia con deviazioni espressionistiche dello sguardo e dello stile, come l’enumerazione, le parentesi (segno di una percezione alineare), la lingua oggettuale e antilirica, capace cioè di farsi prosastica e di mimetizzarsi con la realtà (in chiave parodica – si veda il contrasto tra lessico concreto e astratto, tra le marche dei prodotti e i tecnicismi geologici – e critica), l’assenza di rime, le inarcature che creano effetti di disordine. Lo sguardo si sofferma sulle cose senza storia, che rappresentano la cronaca della nostra provvisorietà, amplificata dal contrasto con la natura glaciale, geologica, antiidillica: detriti, scorie, fossili, pietre esistono al di fuori della memoria dell’uomo e guardano la sua condizione da una straniante immobilità geologica. Roberto Cescon
Balugina ancora a tratti la strada maestra fra gli alberi con le sue luci bianche i rettifili d’ogni giorno ogni ora e scompare. Boscaglia adesso e fremiti di bestia. È che a volte bisogna scartare di lato gettarsi tra i rovi rimettersi in cammino fuori via per non morire. Nelle stazioni di sosta tra vampe di neon cecchini e benpensanti vegliano scrutano gli arrivi, montano e smontano lesti fucili perfettamente ingrassati. Fabio Pusterla
(Mendrisio, 1957), da Corpo stellare (Marcos y Marcos, 2010)
Qui piove per giorni interi, talvolta per mesi. I sassi sono neri d’acquate, I sentieri pesanti. Sul bordo delle rogge: girini, latte scure. Una valigia incatramata. Un filo d’olio cola sulla ghiaia. Sopra, cemento. Se gratti la terra: detriti, mattoni scagliati, denti di coniglio. Si possono pensare rumori umani, passi, palle da tennis. Voci eventuali. Ogni frantume è ammesso purché inutile. Siccome questo è il vuoto c’è posto per tutto, E quel poco che c’è, è come se non ci fosse. Anche i binari sono perfettamente inerti, le lucertole immobili, i vagoni dimenticati. E poi il pollaio. Le cose senza storia. O fuori. Una carriola che non ha ruote. Un pozzo. Un secchio marcio privo di fondo. Il nome di uno scemo: Luigino. Piume dentro la rete, di gallina. Buchi dentro la rete. Trame rotte. Quello che non chiamate crudeltà. Io sono questo: niente. Voglio quello che sono, fortemente. E le parole: nessuno adesso me le ruberà. Fabio Pusterla (Mendrisio, 1957), da Le cose senza storia(Marcos y Marcos, 1994)
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