Chi ha steso braccia al largo battendo le pinne dei piedi gli occhi assorti nel buio del respiro, chi si è immerso nel fondo di pupilla di una cernia intanata dimenticando l’aria, chi ha legato all’albero una tela e ha combinato la rotta e la deriva, chi ha remato in piedi a legni lunghi: questi sanno che le acque hanno volti. E sopra i volti affiorano burrasche, bonacce, correnti e il salto dei pesci che sognano il volo.
Perché reggono l’intero peso. Perché sanno tenersi su appoggi e appigli minimi. Perché sanno correre sugli scogli e neanche i cavalli lo sanno fare. Perché portano via. Perché sono la parte più prigioniera di un corpo incarcerato. E chi esce dopo molti anni deve imparare di nuovo a camminare in linea retta. Perché sanno saltare, e non è colpa loro se più in alto nello scheletro non ci sono ali. Perché sanno piantarsi nel mezzo delle strade come muli e fare una siepe davanti al cancello di una fabbrica. Perché sanno giocare con la palla e sanno nuotare. Perché per qualche popolo pratico erano unità di misura. Perché quelli di donna facevano friggere i versi di Pushkin. Perché gli antichi li amavano e per prima cura di ospitalità li lavavano al viandante. Perché sanno pregare dondolandosi davanti a un muro o ripiegati indietro da un inginocchiatoio. Perché mai capirò come fanno a correre contando su un appoggio solo. Perché sono allegri e sanno ballare il meraviglioso tango, il croccante tip-tap, la ruffiana tarantella. Perché non sanno accusare e non impugnano armi. Perché sono stati crocefissi. Perché anche quando si vorrebbe assestarli nel sedere di qualcuno, viene scrupolo che il bersaglio non meriti l’appoggio. Perché, come le capre, amano il sale. Perché non hanno fretta di nascere, però poi quando arriva il punto di morire scalciano in nome del corpo contro la morte.
Alle fontane i vecchi le donne con i secchi lungo il fiume e l’aria fischiettava di proiettili e schegge, la banda musicale degli assedi, insieme alle sirene. Danubio, Sava, Drina, Neretva, Miljacka, Bosna, ultimi fiumi aggiunti alle guerre del millenovecento, gli eserciti azzannavano le rive, sgarrettavano i ponti, luci della città, Chaplin, le luci di quelle città erano tutte spente. L’Europa intorno prosperava illesa. Altre madri in ginocchio attingono alle rive, dopo che il Volga fermò a Stalingrado la sesta armata di von Paulus e la respinse indietro e l’inseguì fino all’ultimo ponte sulla Sprea, affogando Berlino. Acque d’Europa specchiano ancora incendi. La Vistola al disgelo illuminata dalle fiamme del ghetto: non poteva bastare al novecento. L’acqua in Europa torna a costare l’equivalente in sangue. Erri De Luca (Napoli, 1950), da Opera sull’acqua e altre poesie (Einaudi, 2002)
Io te vurria vasa’ “, sospira la canzone ma prima e più di questo io ti vorrei bastare, io te vurria abbasta’, come la gola al canto come il coltello al pane come la fede al santo io ti vorrei bastare. E nessun altro abbraccio potessi tu cercare in nessun altro odore addormentare, io ti vorrei bastare, io te vurria abbasta’. ” Io te vurria vasa’ “, insiste la canzone ma un pò meno di questo io ti vorrei mancare io te vurria manca’, più del fiato in salita più di neve a Natale di benda su ferita più di farina e sale. E nessun altro abbraccio potessi tu cercare in nessun altro odore addormentare, io ti vorrei mancare, io te vurria manca’.
Mare nostro che non sei nei cieli e abbracci i confini dell’isola e del mondo, sia benedetto il tuo sale, sia benedetto il tuo fondale. Accogli le gremite imbarcazioni senza una strada sopra le tue onde, i pescatori usciti nella notte, le loro reti tra le tue creature, che tornano al mattino con la pesca dei naufraghi salvati. Mare nostro che non sei nei cieli, all’alba sei colore del frumento, al tramonto dell’uva di vendemmia, ti abbiamo seminato di annegati più di qualunque età delle tempeste. Tu sei più giusto della terraferma, pure quando sollevi onde a muraglia poi le abbassi a tappeto. Custodisci le vite, le vite cadute come foglie sul viale, fai da autunno per loro, da carezza, da abbraccio e bacio in fronte di madre e padre prima di partire. Erri De Luca
Mare nostro che non sei nei cieli e abbracci i confini dell’isola e del mondo, sia benedetto il tuo sale, sia benedetto il tuo fondale. Accoglie le gremite imbarcazioni senza una strada sopra le tue onde, i pescatori usciti nella notte, le loro reti tra le tue creature, che tornano al mattino con la pesca dei naufraghi salvati. Mare nostro che non sei nei cieli, all’alba sei colore del frumento, al tramonto dell’uva di vendemmia, ti abbiamo seminato di annegati più di qualunque età delle tempeste. Tu sei più giusto della terraferma, pure quando sollevi onde a muraglia poi le abbassi a tappeto. Custodisci le vite, le vite cadute come foglie sul viale, fai da autunno per loro, da carezza, da abbraccio e bacio in fronte di madre e padre prima di partire.
Sta nella nuvola e nel pozzo, nella neve e nella noce di cocco, negli occhi e nel fiume, nell’arcobaleno e nel lago, nel ghiaccio e nel vapore della pentola sul fuoco, nella bocca. È la maggioranza della superficie. È la maggioranza del corpo. Una persona è acqua che cammina, dall’acqua di placenta all’acqua del sudario. In ebraico è plurale, màim, acque. In francese è una vocale sola, eau, ô. In greco e in tedesco è neutra. In russo e nelle latine è femminile. L’impero di Roma si costruì sull’acqua, fu idraulico. Resiste più di altri manufatti la fabbrica di archi, gli acquedotti. Dal fondo del pozzo avverte il terremoto. Fa tremare il ramo scortecciato in mano al rabdomante. La sua avventura chimica è prodigio, ossigeno più idrogeno, ad accostarli, esplodono. Spegne fuoco, anche quello dei vulcani. Fa il pane, fa la pasta. È nel bianco e nel rosso dell’uovo. È nella sua buccia. È nella carta e nel vino, nelle ciliege e nelle comete. Chi la spreca verrà assetato. Ho visto città al buio andare coi secchi al fiume, ho visto Mostar e Belgrado. Ho visto il Danubio avvelenato dalle rovine di Pancevo. Sobborgo di industrie distrutte da una guerra aerea. Il Danubio in maggio ha avuto la più grande piena del secolo, gli argini sono tracimati in alluvioni nel sud della Germania. Il Danubio ha chiesto acqua al cielo per lavarsi e l’ha avuta. Ma i banchi di aringhe che salgono dal Mar Nero no. Chi sporca l’acqua verrà sporcato. Secondo Geremia la voce di lod/Dio è chiasso di acque nei cieli. Giusta sarà la sorpresa di chi ascolterà la prima domanda, appena morto: «Quant’acqua hai versato?». Ognuno di noi sarà pesato a gocce.