Nonna Graziuccia che dormiva sola col pitale di creta sotto i trespoli e con la carbonella ammonticchiata dentro lo stanzino scavava nel braciere dove brillava un resto di tizzone prima di andare a letto. Il sonno era scandito dal battito del pendolo che a volte nella notte dimenticava di suonare le ore. Mi chiamava alle sette ogni mattina per ripassare un canto dell’Iliade o l’ultimo capitolo di storia prima di prepararmi per la scuola. Nonna Graziuccia col piatto di zitoni al pomodoro nel fazzoletto a quadri s’impregnava di sugo al dondolare tra le mie dita strette ai quattro nodi. Glielo portavo con il fiato in gola e i suoi occhi gioivano all’aprirlo fumante sulla tavola. Mi regalava cinque lire a viaggio che spendevo a comprarmi il solito gelato con lo spruzzo di panna sulla crema e lo leccavo lento allungando la strada per le zie. Nonna Graziuccia col cernitore appeso al muro della casa dirimpetto lo affittava per dieci lire l’ora alle donne di via Cappellini fino al corso di sopra vi scuotevano le foglie di granturco con cui ingrossare magri materassi. Non seppi mai i suoi anni forse settantacinque il giorno che la vidi nella bara con il rosario avvolto nelle mani e senza un filo bianco nei capelli. Nonna Graziuccia con diecimila lire arrotolate nascoste nella pentola sospesa insieme agli altri rami sulla madia dove impastava a pugni cadenzati parrozzi di sei chili e ringraziava Dio a ogni affondo per il dono del pane quotidiano. Con quei soldi le zie mi comprarono al primo compleanno senza lutto un tissot con lancette luminose che sfoggiai per anni sopra il polso di una casacca verde militare. Nonna Graziuccia che dormi il sonno eterno nel loculo appoggiato al pavimento della chiesa Madonna delle Grazie, senza il tuo nome e senza il portafiori vi è rimasto un anello arrugginito dove infilare recitando un requiem un mazzetto di finte margherite nel giorno dei defunti. Manchi soltanto tu nella nostra cappella di famiglia.
Dopo aver lavorato tutto il giorno a fare buchi e sistemare tende mi hai intimato, per togliermi di torno, di andare a nanna. Ciò che più mi offende è la tua brama di volerla vinta ad ogni costo. Tanto il tuo io s’impone che non ci pensi, fosse anche per finta, di illudermi con qualche concessione. Con un piede nel letto mi hai sgridato: Lavati, che sporchi le lenzuola con tutto quel sudore che hai buttato. Obbedire è la sola mia virtù. Persino negli affari dell’amore il giorno e l’ora li decidi tu.
Siamo tu e io nel grande appartamento. Senza più figli e senza più il tormento di far quadrare i conti a fine mese, senza scosse e spiacevoli sorprese. Tu nel soggiorno a fare le tue cose, io nello studio con i miei spagnoli. Non hanno spine ormai le nostre rose, siamo solo noi due, sempre più soli. Da qualche anno ci diamo appuntamento solo all’ora del pranzo e della cena, ed aspettiamo trepidi il momento di andare a letto, ognuno al suo angolino. Per le urgenze che valgono la pena comunichiamo per telefonino.
a Francesca, 13 anni dopo. Lascio solo per te la porta aperta. Gli altri sparsi nel mondo alla scoperta – chi a El Palmar, chi ad Ascoli Piceno – caparbia d’uno squarcio di sereno. Ma tu la chiudi sempre, rattristita e bastonata da quel male oscuro che ti spegne implacabile. Stranita, trascorri i giorni a rafforzare il muro della disperazione e del sospetto che nel tuo animo penetra e s’avvita. Smuovi il macigno che ti opprime muto. Piangi pure se il pianto t’è di aiuto, perché malgrado tutto e a tuo dispetto più la disprezzi e più t’ama la vita.
Il bianco graffia e arde sopra i muri a strapiombo sui ripidi gradoni si aggrappa in linea retta fin sul monte sperdendosi tra i fossi e le macerie. Costruito a pane e ulive e quartabuono s’incunea e si srotola in discesa verso il mare sognato dietro i boschi. Nella via Cappellini le comari ricamano sull’uscio delle case. Ma il sole non t’illumina la carne inquieta sotto un lutto millenario e con mani di calce mi trattieni i capelli dal vento scarmigliati. Grida la sera e a frotte si riversa nella piazza di sotto a Santa Chiara. Con il buio si schiodano le travi e la lugubre tromba delle botti spalanca gli occhi e asciuga la saliva. Sono salito fino alla via nuova. Dietro il muretto i tetti di San Marco. Ho i pantaloni corti con le toppe e lo sguardo imbronciato. S’affacciava Ninetta alla finestra della casa più sotto di un gradone di fronte a quella nostra. La guardavo incollato alla rete del balcone della stanza di sopra quando nonna scendeva a sfaccendare con mia madre. Non poteva vedermi perché talmente fitto era l’intreccio con solo qualche nodo sfilacciato dalle impazienti dita all’altezza degli occhi. Con il seno poggiato al davanzale stendeva mutandine e reggipetti neri tenuti da mollette che sembravano uccellini venuti a riposare su quei fili di ferro ammorsati a due sbarre. Oh mi fossi trovato lì appuntato ad annusare il fondo delle coppe bere l’ultima goccia dell’impudica seta. Ninetta che cantava le canzoni di Natalino Otto con i lunghi capelli alla Rita Hayworth – lo diceva Michele che già a quattordici anni conosceva i nomi e i volti delle più famose attrici americane – vi passava le mani per dargli più volume arricchendo di riccioli le punte e ammiccava sensuale come a dirmi esci fuori Gigino t’ho scoperto se mi vieni a trovare qualche sera t’insegno a pettinarli. E mi spossavo dentro lo stanzino pensandomi nell’atto d’ingoiare la sua fluente chioma con fervore suicida. Lei aveva vent’anni io solo dieci. Erano tre sorelle rimaste orfane di entrambi i genitori. Alfreda la più piccola con i nastrini neri sulle trecce cullava la sua bambola di pezza sull’uscio del portone. Avevo gli stessi anni di Bambina. Un giorno nelle scale giocò con me a fare l’infermiera e m’infilò la mano nei calzoni alzandosi la veste sopra il petto. M’accarezzava l’innocente pelle spingendomi a succhiare i suoi boccioli. Chiamavamo quel modo di conoscerci “cose di porcherie”.
Grazie Signore per questa creatura che scuotendosi la pioggia dalle ali s’avvicina a saltelli circospetti a beccare una briciola di pane quasi sotto il mio piede mentre aspetto seduto su una panca la corriera che mi riporta a casa dopo una notte insonne in ospedale. Grazie di cuore per la compagnia. Grazie per non averla intimorita. Ti lodiamo Signore per questa nostra doccia coi vetri trasparenti a portafoglio. Ci piaceva così fuorimisura novanta per novanta e la comprammo per starci entrambi dentro. Che meraviglia d’acqua scrosciante sopra i nostri corpi nudi che mista al bagnoschiuma disegnava cirri paradisiaci. E saremmo rimasti a vivere lì dentro se il letto non ci avesse convocati nella complicità dei nostri giovani anni odorosi di talco. Lontane quelle notti in cui la carne fremeva sotto i colpi del piacere guardo le forme incerte dietro gli stessi vetri velati dagli spruzzi del vapore mentre allo specchio stiro guance e fronte nella caparbia lotta contro il tempo. Proviamo a far l’amore? ti propongo. Spalmandoti la crema sulle cosce mi fai un sorriso complice e mi sfiori l’orecchio con le labbra: prepara il letto adesso ti raggiungo. Li affido a te Signore questi neri che sbucano a decine a centinaia a gruppi o in fila indiana dal sottopasso della ferrovia vicino a casa nostra. Si avviano starnazzanti verso il mare intasano la strada incuranti del traffico che ti verrebbe voglia di gridare per fargli il controcanto cerchi scampo chi può mamma li negri! Sia chiaro siamo aperti a ogni loro esigenza grazie al nostro passato di emigranti però diamine un po’ più di rispetto per chi a quest’ora schiaccia un pisolino parlare ad alta voce è di esseri incivili. Guardali quanti sono somigliano alle bibliche locuste a un gregge di montoni in Aspromonte gli uomini con fagotti nella mano o in bilico sul capo le donne più composte coi residui della loro famiglia tra le braccia o sospesi alle spalle. Donne dolorosissime con negli occhi i massacri delle guerre e della fame donne fortunate che si sono disfatte di altre donne schiavizzate stuprate lapidate con le ferite aperte di matrimoni imposti e vedovanze che intrecciano i capelli delle bambine bianche col viavai di lunghe dita nere sotto lo sguardo attento delle madri. E uomini vaganti tra lettini e ombrelloni che come per un gioco di magia estraggono da zaini e da sacchetti borse a soffietto zufoli girandole lingue di menelik ranocchi luminosi nani spruzzanti bolle di sapone rosari figurine di Padre Pio e dell’odiato Papa immagini di Cristo sorridente con il cuore squarciato dalla spada loro poveri cristi musulmani. Signore dammi ascolto spalancagli le porte dello Janna e adagia sopra il seno delle huri la loro schiena rotta sotto il peso di inutili negozi con una nube dove riposare i piedi martoriati dalla cocente sabbia del deserto lungo la spiaggia di Montesilvano. Ti ringrazio Signore per tutte le commesse che ho incontrato all’Iper di Pescara Nord a Brico a Castorama a Auchan a Oasi a Sisa alla Conad e agli altri supermarket dove ci rifugiamo per sfuggire all’ardore di questi pomeriggi. Che gioia quelle bianche camicette morigeratamente sbottonate sul seno sotto camici attillati col nome e con il logo dell’azienda. Che regalo impagabile le loro esili dita che scorrono veloci sopra i codici a barre dei prodotti. Che mani alabastrine con unghie di ogni forma e ogni colore mani tamburellanti sui tasti della cassa mani di una bellezza folgorante che disattentamente incrociano le mie collocando la spesa nelle buste. Mani che resteranno per tutto quest’agosto fino all’estate prossima nel disco fisso della mia memoria.
Se arriveremo insieme a novant’anni, io mezzo rimbambito e sgangherato, tu dritta come un fuso e senza danni nel corpo e nella mente, è il risultato, mi dirai con orgoglio, delle tante ore in palestra e lunghe passeggiate, mentre io nutrivo l’animo mio amante della poesia ed altre coglionate, ti chiedo, ammesso che arriviamo uniti, io ridotto in frantumi, tu perfetta, agli stramaledetti novant’anni, se per i tuoi consigli mai seguiti ti prenderai di me giusta vendetta esultando per tutti i miei malanni.
Col passare degli anni litighiamo sempre più spesso e a volte per un niente. Con lo sguardo abbassato ognuno sente l’altro come un estraneo e ci chiudiamo in un mutismo astioso. Se poi avviene di sfiorarci un istante per errore il sangue ci si gela nelle vene e restiamo impietriti dal terrore che la notte ci giochi un brutto tiro spingendoci col sonno nell’abbraccio. In bilico aspettiamo sulla sponda del letto l’alba e con un gran sospiro di sollievo preghiamo affinché il ghiaccio che avvolge i nostri corpi mai si fonda.
Alla fine di via Agostinone dove s’incrocia con il lungomare aspettava paziente canticchiando su una sedia di plastica a tre gambe e distribuiva amore ai neri e agli sbandati per il modico prezzo di cinque euro com’era scritto sopra un cartellino che portava appuntato alla maglietta. Lavorava in un vecchio casolare dove cedeva la pineta il posto a un viottolo invaso da sterpaglie. Passavamo di lì per abbreviare la strada per la spiaggia e sembrava volesse salutarci comparendo tra un intervallo e l’altro con il berretto bianco e i pantaloni a mezza gamba che si abbottonava con studiata lentezza. Scuoteva il materasso e lo metteva al sole prima che l’occupasse un altro cliente. Con la fronte segnata dalle rughe e le guance cascanti nascondeva il carico degli anni imbrattandosi il viso d’un fard acceso e spesse ciglia finte sopra uno sguardo casto da bambina. Le nuove costruzioni si sono impossessate della zona cancellando ogni traccia di quella via e della sua presenza. È rimasto soltanto un pezzo di cemento dove vanno crescendo cumuli d’immondizia e di detriti e raggiungiamo il mare per un viale con larghi marciapiedi fiancheggiati da frassini e recinti di bosso. L’ho rivista stasera mentre passeggiavamo per la strada che porta ai grandi alberghi con lo stesso berretto e i pantaloni azzurri a mezza gamba e il passo dondolante d’un’ubriaca. Chiedeva l’elemosina. Non so se m’ha riconosciuto ma negli occhi brillò un sorriso casto da bambina quando accolse cinque euro nella mano. Accettala Signore nella tua casa santa ha dispensato gioia ai derelitti lei stessa una reietta sulla terra e dalle un letto morbido e lenzuola di lino dove possa riposare il suo ventre devastato.
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