Vago fanciullo biondo Dagli amorosi e grandi occhi severi Che guidi pei sentieri Il padre vecchio, cieco e vagabondo, Che tu sia benedetto, O fanciulletto pio, forte e gentile; Come mi sento vile, Come mi sento vile al tuo cospetto! Mentre l’obolo mio Ti porgo, umile tu levi il cappello… Ah no, non sei tu quello Che di noi due s’ha da scoprir: son io. Io che stempro in parole Gli affetti che in sublimi atti tu rendi; Io rifletto e tu splendi, Io son lo specchio e tu, fanciullo, il sole. Va, eroe dall’umil volto, Di sentiero in sentier, pensoso e muto, Col genitor canuto Nell’infinita oscurità sepolto; Va, fanciullo, e la brezza Dei monti a te sia mite e al tuo protetto E trova ad ogni tetto Una moneta, un pane e una carezza. E quando da la guerra Del mondo il padre tuo vinto ed oppresso Lasci il tuo breve amplesso Per l’amplesso immortale de la terra Che tu possa, indomato Lottator, d’ogni avversa ira più forte, Alla domata sorte Tutti i beni strappar che t’ha negato; E aver l’oro, e l’ebbrezza De la gloria, e d’un angelo la mano; Nessun trionfo umano Sarà più grande della tua grandezza. Va, fanciulletto pio. Guida pei monti il cieco vecchierello, Ma tieni il tuo cappello; S’un di noi due s’ha da scoprir, son io. E non è che uno stolto Vano pudor che mi trattiene il core Dal chiederti l’onore Il grande onore di baciarti in volto.
Scrivi e riscrivi, e nè cortesi accenti Nè il suon d’un plauso animator riscoti, E i versi tuoi non leggono che i proti E i vecchi amici e i prossimi parenti. Ed ogni via dell’arte invan ritenti E stilli e ponzi e t’agiti e t’arroti, E il grave incarco dei volumi ignoti Tra la folla che passa, urlando, ostenti. Invano, invano! Di tue veglie amare L’informe opera, morta anzi che nata, Nel gran mar dell’obblío tonfa e dispare; E più t’ostini, e con più alto riso E più sdegnosa man, l’inesorata Gloria ti sbatte le sue porte in viso.
Anch’io gl’intesi i primi inni guerrieri Sonar ne la città sacra a le genti, E scendere a fiumane i reggimenti Per le solenni vie belli ed alteri! Scendean raggianti, tempestosi e neri Fra i muti chiostri e gli alti monumenti, E le grida e i singhiozzi dei redenti Eran dell’onda armata i messaggeri; E mentre qui tra le fraterne schiere Rompea la folla, le invocate lame Baciando e i volti amati e le bandiere, Fuggìa di là stravolto e fremebondo, Coll’onta in core, il mercenario infame E rovinava sui suoi passi un mondo.
I. Beppe, ricordi il mio sogno dorato, Quando sudavi ancor sulle Pandette, Di raccoglierci, vecchi, in due villette Sulla riva del mar dove son nato? Io te Io dissi un giorno e tu, beato, Con quel riso che assente e che promette, — Verrò — dicesti e le mie mani hai strette, E — giuralo — ti dissi, e l’hai giurato. Poi diventasti babbo e cavaliere E il sogno forse del tuo fido amico Scordasti già da molte primavere. Ma ti verrò una notte a rammentare, Silva implacato, il giuramento antico, E a tuo dispetto morirai sul mare. II. Già veggo sulla mia spiaggia diletta Spuntare un vecchio dall’aspetto blando, Ed un altro vecchietto venerando Sbucar, tossendo, da la sua casetta; Tremoli e curvi, per la via soletta Salgono a lento passo, e a quando a quando Li vedo di lontan, gesticolando. Alzar la tabacchiera e la gazzetta. Intanto dietro al mar caldo si cela Il sol, dorando un borgo sull’altura, E nel golfo gentil passa una vela; Poi fra le piante de la via romita Si nascondono i vecchi, e il ciel s’oscura… Così sogno la fin della mia vita. III. Tu avrai dintorno allora e forse anch’io Un branco di ragazzi impertinenti, Di signorine bionde e di studenti Che ci faranno in casa il diavolìo; Ma forte io del tuo senno e tu del mio, Vigileremo sui due sessi, attenti A soffocar le simpatie nascenti Attenti, Beppe, per amor di Dio! E colto appena a volo il suon d’un: t’amo, Rimanderemo i due precoci amanti L’uno al suo greco e l’altra al suo ricamo; E faremo tremar gli sciagurati Con solenni parole altisonanti… Ridendo sotto i baffi intabaccati. IV. E quando in cassa ci saran quattrini Si farà festa al nostro focolare; Imbandiremo un lauto desinare E inviteremo i sindaci vicini; E allegramente coleranno i vini A ravvivarci le memorie care E lasceremo entrar l’aria del mare Ad agitare i riccioli ai bambini; E fino a notte, dai terrazzi aperti Si spanderà per gli orti un suon di canti, E i sindaci usciranno a passi incerti; E resteremo noi, dopo il convito, Col mento in mano e gli occhi luccicanti A sorseggiarne in pace un altro dito. V. E passeggiando pel gentil paese Dove l’ulivo pio cullano i venti, Penseremo ai fuggiti anni ridenti E all’arte e al mondo che ci fu cortese; Io dell’armi all’amor che un dì m’accese E ai vaghi aspetti di lontane genti, Tu al plauso antico dei teatri ardenti E alla verde beltà del Canavese; E agli amici dispersi, alle sonore Cene, ai voli dell’estro adolescente, Ed alle prime simpatie del core; E poi, dato un sospiro a quei begli anni, Torneremo a parlar placidamente Di cedole, di tasse e di malanni. VI. Ma in un giorno di vento e d’umor nero, Tra uno schianto di tosse e uno starnuto, Liticheremo, e tu sarai cocciuto E impertinente, ed io rozzo ed altero; E dopo un urto impetüoso e fiero Ci pianteremo là senza saluto, E ognun ripiglierà torbido e muto A passo tentennante il suo sentiero. Ma pervenuti appena ai nostri tetti. Ci volteremo tutti e due, con viva Tenerezza agitando i fazzoletti; E fidando al guancial la fronte stanca Ci sentiremo entrambi una furtiva Stilla di pianto ne la barba bianca. VII. Ma ho un anno più di te, Beppe, e son io Che dirò addio pel primo alla marina; E tu, dopo tanti anni, una mattina Non sentirai più al fianco il braccio mio; E già veggo il corteo tacito e pio Lentamente calar da la collina, E tu seguirlo con la fronte china, — Addio — dicendo — vecchio amico, addio! Quindi fra i ceri, in mezzo alla commossa Folla, tu leggi soffocando il pianto Qualche verso gentil su la mia fossa; E poi torni a la villa afflitta e queta, Ed apri al core de’ miei figli infranto Il tuo bel cor di padre e di poeta. VIII. Ma non parlar di me con troppo amore Nei versi che farai pel funerale, Se no salterà su qualche giornale A dir che sei venduto all’Editore; Potrai dir ch’ero un asino di core, Un vecchio bimbo, un matto originale. Che non ebbe nell’anima leale L’ombra d’un odio mai nè d’un rancore; E dirai che son morto impenitente, Fido al vecchio Manzoni incretinito Che incretinì l’Italia anticamente; Ma che fra le due scole guerreggianti Che rompono oramai quel che hai capito Davo un sacco di torti a tutti quanti.
I. L’aria s’affredda, il sole si nasconde, Radon la terra i passeri sgomenti, Fuggon nel polverío, preda dei venti, Le inaridite foglie vagabonde; Fra le voci del ciel cupe e profonde Sonano risa e passi di fuggenti, E strilli acuti, e colpi vïolenti D’imposte, e un lamentío lungo di fronde. Poi tace la città trista e soletta E dietro ogni finestra ansiosamente S’affaccia un volto attonito che aspetta. Casca e salta ad un tratto al piede mio Un granellino bianco e rilucente… Eccola, viene che la manda Iddio. II. Strepitando vien giù candida e bella, Batte il suol, tronca i rami, il cielo oscura, E nelle grigie vie sonante e dura Picchia, rimbalza, rotola, saltella; Squassa le gronde, i tetti alti flagella, Sbriciola sibilando la verzura, Ricasca dai terrazzi e nelle mura S’infrange, e vasi e vetri urta e sfracella; E per tutto s’ammonta e tutto imbianca; Ma lentamente l’ira sua declina E solca l’aria diradata e stanca; Poi di repente più maligna stride, Poi tutto tace, e sulla gran ruina Perfidamente il ciel limpido ride.
Cogli occhi spenti, con lo guancie cave, Pallidi, in atto addolorato e grave, Sorreggendo le donne affrante e smorte, Ascendono la nave Come s’ascende il palco de la morte. E ognun sul petto trepido si serra Tutto quel che possiede su la terra. Altri un misero involto, altri un patito Bimbo, che gli s’afferra Al collo, dalle immense acque atterrito. Salgono in lunga fila, umili e muti, E sopra i volti appar bruni e sparuti Umido ancora il desolato affanno Degli estremi saluti Dati ai monti che più non rivedranno. Salgono, e ognuno la pupilla mesta Sulla ricca e gentil Genova arresta, Intento in atto di stupor profondo, Come sopra una festa Fisserebbe lo sguardo un moribondo. Ammonticchiati là come giumenti Sulla gelida prua morsa dai venti, Migrano a terre inospiti e lontane; Laceri e macilenti, Varcano i mari per cercar del pane. Traditi da un mercante menzognero, Vanno, oggetto di scherno allo straniero, Bestie da soma, dispregiati iloti, Carne da cimitero, Vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti. Vanno, ignari di tutto, ove li porta La fame, in terre ove altra gente è morta; Come il pezzente cieco o vagabondo Erra di porta in porta, Essi così vanno di mondo in mondo. Vanno coi figli come un gran tesoro Celando in petto una moneta d’oro, Frutto segreto d’infiniti stonti, E le donne con loro, Istupidite martiri piangenti. Pur nell’angoscia di quell’ultim’ora Il suol che li rifiuta amano ancora; L’amano ancora il maledetto suolo Che i figli suoi divora, Dove sudano mille e campa un solo. E li han nel core in quei solenni istanti I bei clivi di allegre acque sonanti, E le chiesette candide, e i pacati Laghi cinti di piante, E i villaggi tranquilli ove son nati! E ognuno forse sprigionando un grido, Se lo potesse, tornerebbe al lido; Tornerebbe a morir sopra i nativi Monti, nel triste nido Dove piangono i suoi vecchi malvivi. Addio, poveri vecchi! In men d’un anno Rosi dalla miseria e dall’affanno, Forse morrete là senza compianto, E i figli nol sapranno, E andrete ignudi e soli al camposanto. Poveri vecchi, addio! Forse a quest’ora Dai muti clivi che il tramonto indora La man levate i figli a benedire… Benediteli ancora: Tutti vanno a soffrir, molti a morire. Ecco il naviglio maestoso e lento Salpa, Genova gira, alita il vento. Sul vago lido si distende un velo, E il drappello sgomento Solleva un grido desolato al cielo. Chi al lido che dispar tende le braccia. Chi nell’involto suo china la faccia, Chi versando un’amara onda dagli occhi La sua compagna abbraccia, Chi supplicando Iddio piega i ginocchi. E il naviglio s’affretta, e il giorno muore, E un suon di pianti e d’urli di dolore Vagamente confuso al suon dell’onda Viene a morir nel core De la folla che guarda da la sponda. Addio, fratelli! Addio, turba dolente! Vi sia pietoso il cielo e il mar clemente, V’allieti il sole il misero viaggio; Addio, povera gente, Datevi pace e fatevi coraggio. Stringete il nodo dei fraterni affetti. Riparate dal freddo i fanciulletti , Dividetevi i cenci, i soldi, il pane, Sfidate uniti e stretti L’imperversar de le sciagure umane. E Iddio vi faccia rivarcar quei mari, E tornare ai villaggi umili e cari, E ritrovare ancor de le deserte Case sui limitari I vostri vecchi con le braccia aperte.
Ella era di Granata, ei di Siviglia, E avean d’arabi il sangue ed il sembiante, Ei vano, ella gelosa, e un scintillante Stiletto nascondea nella mantiglia. E un dì gli vide in fronte la vermiglia Traccia del labbro de la nuova amante, E — bada — mormorò, cupa e tremante, — Un’ape ti ferì sopra le ciglia. — Egli la fronte nelle man nascose, Poi con volto ridente e risoluto: — Un’ape sì, una dolce ape, — rispose. — Ebben — diss’ella con un bieco riso, — Senti se questa ha il pungiglion più acuto, — E gli confisse lo stiletto in viso.
Quando la notte per le vie tacenti De la bella Torino addormentata Discuto il dramma in mezzo alla brigata Dei fidi amici miei lieti e ridenti, Chi sa mai dir che razza di commenti Faranno sulla nostra cicalata, Dondolando la testa imberrettata, I droghieri tranquilli e sonnolenti? Cos’è — diranno — questa setta infame Che par che sprezzi chi non ha uno stile E parla di catastrofi e di trame? In fede mia, ci vuol disinvoltura! Dov’è, che fa l’autorità civile? Cosa fanno le guardie di questura?
Quello che è giusto è giusto, ha un gran talento; Ma parlando col debito rispetto, (Si sa che ogni scrittore ha il suo difetto) C’è nel suo stile un po’… direi… di stento. Altri dice ch’è gonfio: io non dissento; Qualche volta è un po’ gonfio e un po’ scorretto; Ma tolto questo è uno scrittor perfetto. Peccato che non abbia sentimento! Ma è pien di fantasia, pien di pensiero; Benchè manchi di gusto e sia sovente Un po’… vuoto, un po’… fiacco, un po’… leggiero. E qualche lampo l’ha… quantunque raro; Ma ruba, santo Iddio, sfacciatamente! Non so se sia più ladro o più somaro.
I. Quella bontà che nel mio cor rinviene La bella anima tua fervida e pia Non è che un’amorosa cortesia, La cortesia dell’anime serene. È una bontà che dal voler non viene, È un istinto di pace e d’armonìa, È una dolcezza che la madre mia Mi trasfuse nell’ossa e nelle vene. E non è mia virtù, ma mio destino; Non merta il nome benedetto e santo A cui la fronte reverente inchino; Ho l’indulgenza, la dolcezza, il pianto, Come ha il trillo gentile il cardellino: La mia bontà, diletto amico, è un canto. II. E chi m’offende con maligna mente Non lo sdegno o lo sprezzo o l’odio o l’ira, Ma una grande tristezza in cor m’ispira, Una grande tristezza solamente. E non solo a colui che il fa dolente Il cor perdona, e l’amor suo sospira, Ma sè stesso condanna e in sè s’adira Chè altrui non sa ispirar quello ch’ei sente. E le censure acerbe, e il franco e duro Disdegno, e i colpi apertamente intesi A umiliar l’orgoglio mio, non curo; È l’odio freddo che il mio cor deride, È l’odio di color che non offesi, Questa è l’arma spietata che m’uccide. III. Oh chi afflisse o ferì l’anima mia, O nei begli anni dell’età ridente, O nell’età che in lotte aspre e cruente La gentilezza del perdono obblía, Venga, venga da me, qualunque sia La sua fede, il suo nome e la sua mente, Venga superbo o triste o sorridente, E incontrerà il mio bacio per la via. Venga da me in un giorno di dolore, Mi troverà una lacrima negli occhi Ed un fraterno palpito nel core; E stringerò il suo capo sul mio petto E gli porrò i miei bimbi sui ginocchi E sarà benvenuto e benedetto. IV. E mi si disse: — Muterai natura Sotto il morso crudel dei disinganni; L’angelo de’ bei sogni aprirà i vanni, Aprirà i vanni coll’età matura. Voce bugiarda! È giunta la sventura E l’onda amara dei virili affanni; Ma sento sempre il cor come a vent’anni E il sogno dell’antico angelo dura. E cangi il mondo, rimarrò qual sono; E vecchio, solo, derelitto, irriso, Avrò ancora nell’anima il perdono; E fin che non sarò nel cataletto, Sulla mia bocca brillerà un sorriso E nel mio core fremerà un affetto.
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