David Maria Turoldo
Ti sento, Verbo, risuonare dalle punte dei rami
dagli aghi dei pini dall’assordante
silenzio della grande pineta
– cattedrale che più ami – appena
velata di nebbia come
da diffusa nube d’incenso il tempio.
Ti sento, Verbo, risuonare dalle punte dei rami
dagli aghi dei pini dall’assordante
silenzio della grande pineta
– cattedrale che più ami – appena
velata di nebbia come
da diffusa nube d’incenso il tempio.
Torniamo ai giorni del rischio,
quando tu salutavi a sera
senza essere certo mai
di rivedere l’amico al mattino.
Torniamo amici,
ai giorni de “l’Uomo”:
al fiordo della nostra amicizia
ove sicuri ci aspettavamo la sera
dai vichi della città
così ferita dai passi delle ronde
per l’intera notte.
Perdona le chiese, i preti
prima fra tutti:
dei filosofi non cancellare il nome
dalla tua anagrafe.
Parole, inerti macerie,
brandelli d’esistenze
disamorate, panorama
del mio paese
ove neppure il gesto
sacrificale più rompe
la immota somiglianza dei giorni,
né le vesti sante coprono
la nudità degli istinti.
Ieri all’ora nona mi dissero:
il Drago è certo, insediato nel centro
del ventre come un re sul suo trono.
E calmo risposi: bene! Mettiamoci
in orbita: prendiamo finalmente
la giusta misura davanti alle cose;
e con serenità facciamo l’elenco:
e l’elenco è veramente breve.
Ma quando facevo il pastore
allora ero certo del tuo Natale.
I campi bianchi di brina,
i campi rotti dal gracidio dei corvi
nel mio Friuli sotto la montagna,
erano il giusto spazio alla calata
delle genti favolose.
I tronchi degli alberi parevano
creature piene di ferite;
mia madre era parente
della Vergine,
tutta in faccende,
finalmente serena.
Io portavo le pecore fino al sagrato
e sapevo d’essere uomo vero
del tuo regale presepio.
È la memoria una distesa
di campi assopiti
e i ricordi in essa
chiomati di nebbia e di sole.
La sentenza che ora tu sai
nulla di nuovo aggiunge a quanto
già doveva esserti noto da sempre:
tutto è scritto. Di nuovo
è appena un fatto di calendario.
A me un paese di sole,
una casa leggera,
un canto di fontana
giù nel cortile.
E un sedile di pietra.
E schiamazzo di bimbi.
Un po’ di noci in solaio,
un orticello,
giorni senza nome,
e la certezza di vivere.