L’universo non ha un centro, ma per abbracciarsi si fa cosí: ci si avvicina lentamente eppure senza motivo apparente, poi allargando le braccia, si mostra il disarmo delle ali, e infine si svanisce, insieme, nello spazio di carità tra te e l’altro.
L’universo non ha un centro, ma per abbracciarsi si fa cosí: ci si avvicina lentamente eppure senza motivo apparente, poi allargando le braccia, si mostra il disarmo delle ali, e infine si svanisce, insieme, nello spazio di carità tra te e l’altro
Dunque, per ascoltare avvicina all’orecchio la conchiglia della mano che ti trasmetta le linee sonore del passato, le morbide voci e quelle ghiacciate, e la colonna audace del futuro, fino alla sabbia lenta del presente, allora prediligi il silenzio che segue la nota e la rende sconosciuta e lesta nello sfuggire ogni via domestica del senso. Accosta all’orecchio il vuoto fecondo della mano, vuoto con vuoto. Ripiega i pensieri fino a riceverle in pieno petto risonante le parole in boccio. Per ascoltare bisogna aver fame e anche sete, sete che sia tutt’uno col deserto, fame che è pezzetto di pane in tasca e briciole per chiamare i voli, perché è in volo che arriva il senso e non rifacendo il cammino a ritroso, visto che il sentiero, anche quando è il medesimo, non è mai lo stesso dell’andata. Dunque, abbraccia le parole come fanno le rondini col cielo, tuffandosi, aperte all’infinito, abisso del senso.
Apro e chiudo introduzioni e svolte quelli che entrano non usciranno uguali: telefonate malattie morti amori fanno di loro eroi d’interni. Un cuore a orologeria io sono, non visto e ovvio separo e unisco la scienza delle porte.
Abito nella tua voce e quando tace il silenzio è alato abito sotto la violenza delle tue ali e quando il silenzio è sommerso dai rumori essi sono il cuore del mondo abito nel mondo e le piume del mondo sanno che la bellezza esiste: «Quando arriverà il tuo passo metterò una conchiglia sopra la soglia e nell’aprirla i frantumi volando reciteranno il tuo nome».
Che esista l’acqua che esistano le cose il sasso la faina la carezza il vento che esista il vuoto smisurato l’amore dello spazio lo sbriciolio della parola amore, il suo crepitare non dà tregua se amore è direzione. Le parole seminano scavano nel cielo: non vivono le cose solo dentro di noi, devono venire al mondo, riflesse pronunciate. Amare essere amati pelle con pelle respiro passo dentro buccia di mondo.
Amo il bianco tra le parole, il loro margine ardente, amo quando taci e quando riprendi a parlare, amo la parola che spunta solitaria sullo specchio buio del vocabolario, e quando sborda, va alla deriva con deciso smarrimento, quando si oscura e quando si spezza, si fa ombra. Quando veste il mondo, quando lo rivela, quando fa mappa, quando fa destino. Amo quando è imminente e quando si schianta, quando è straniera, quando straniera sono io nella sua ipotetica terra, amo quello che resta, dopo la parola detta, non detta. E quando è proibita e pronunciata lo stesso, quando si cerca e si vela, quando si sposa e quando è realtà di muri limite che incaglia al suolo, quando scorre candida e corre per prima a bere, e quando preme alla gola, spinge all’aperto, quando è presa a prestito, quando mi impresta al discorso dell’altro, quando mi abbandona. Non voglio una parola di troppo, voglio un silenzio a dirotto, non un commercio tra mutezza e voce, ma una breccia, una spaccatura che allarga luce, una pista delle scosse. Dammi un ascolto che precipita – parola. Che nasce.
Io accarezzo il silenzio. Il silenzio – che mi spedisci – tu. La prontezza della tua assenza la assaporo – la mancanza – qui nel pieno del petto vuoto, la sorseggio come una mano grande aperta sotto la pioggia.
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