Non mi lasciare solo se io ti lascio sola e intorno a te la luce è quella che fa piangere dei giorni ordinari, non allontanarti con passo fiducioso in direzione dell’estate e non considerare rassegnata la fatalità delle averse e del sole, non acquistare viole in prossimità della casa.
Comincia a nevicare sulla fanciulla dormiente. Una fagiana passava per il bosco e si fermò a guardare. La fanciulla si svegliò e vide la fagiana ferma davanti a lei che era diventata bianca; e vide che anch’essa era diventata bianca. Le venne una gran voglia di dormire. Chiuse gli occhi e le palpebre le parvero pesanti Sognava d’essere una fagiana e che fosse il tempo dell’uva sulle colline.
Lasciate che m’incammini per la strada in salita e al primo batticuore mi volga, già da stanchezza e gioia esaltato ed oppresso, a guardare le valli azzurre per la lontananza, azzurre le valli e gli anni che spazio e tempo distanziano. Così a una curva, vicina tanto che la frescura dei fitti noccioli e d’un’acqua pullulante perenne nel cavo gomito d’ombra giunge sin qui dove sole e aria baciano la fronte le mani di chi ha saputo vincere la tentazione al riposo, io veda la compagnia sbucare e meravigliarsi di tutto con l’inquieta speranza dei migratori e dei profughi scoccando nel cielo il mezzogiorno montano del 9 settembre ’43. Oh, campane di Montebello Belasola Villula Agna ignare, stordite noi che camminiamo in fuga mentre immobili guardano da destra e da sinistra più in alto più in basso nel faticato appennino dell’aratura quelli cui toccherà pagare anche per noi insolventi, ma ora pacificamente lasciano splendere il vomere a solco incompiuto, asciugare il sudore, arrestarsi il tempo per speculare sul fatto che un padre e una madre giovani un bambino e una serva s’arrampicano svelti, villeggianti fuori stagione (o gentile inganno ottico del caldo mezzodì), verso Casarola ricca d’asini di castagni e di sassi.
Vennero i freddi, con bianchi pennacchi e azzurre spade spopolarono le contrade. Il riverbero dei fuochi splendé calmo nei vetri. La luna era sugli spogli orti invernali.
Come il lupo è il vento Che cala dai monti al piano. Corica nei campi il grano Ovunque passa è sgomento. Fischia nei mattini chiari Illuminando case e orizzonti Sconvolge l’acqua nelle fonti Caccia gli uomini ai ripari. Poi, stanco s’addormenta prende le cose, come dopo l’amore.
Spumeggiante, fredda fiorita acqua dei torrenti, un incanto mi dai che piu bello non conobbi mai; il tuo rumore mi fa sordo, nascono echi. nel mio cuore. Dove sono? Fra grandi massi arrugginiti, alberi, selve percorse da ombrosi sentieri? Il sole mi fa un po’ sudare, mi dora. Oh, questo rumore tranquillo, questa solitudine. E quel mulino che si vede e non si vede fra i castagni, abbandonato. Mi sento stanco, felice come una nuvola o un albero bagnato.
Io sono solo il fiume è grande e canta Chi c’è di là? Pesto gramigne bruciacchiate. Tutte le ore sono uguali per chi cammina senza perché presso l’acqua che canta. Non una barca solca i flutti grigi che come giganti placati passano davanti ai miei occhi cantando. Nessuno.
Le mattine dei nostri anni perduti, i tavolini nell’ombra soleggiata dell’autunno, i compagni che andavano e tornavano, i compagni che non tornarono più, ho pensato ad essi lietamente. Perché questo giorno di settembre splende così incantevole nelle vetrine in ore simili a quelle d’allora, quelle d’allora scorrono ormai in un pacifico tempo, la folla è uguale sui marciapiedi dorati, solo il grigio e il lilla si mutano in verde e rosso per la moda, il passo è quello lento e gaio della provincia.
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