Luna fedel tu chiama Col raggio ed io col suon La fulgida mia dama Sul gotico veron. E se potrò vederla, O luna astro fatal, Ti chiamerò la perla Dell’etra sideral. Dirò che sei d’argento. D’opale, d’ambra e d’or. Dirò che incanti il vento E che innamori il fior. Dirò che abbelli il verso Del biondo menestrel, Che sei lo specchio terso Degli angeli nel ciel. Luna fedel tu chiama Col raggio ed io col suon La fulgida mia dama Sul gotico veron. Ma se vedermi niega, O luna astro fatal, Dirò che sei la strega Dell’ombra funeral, Piomba, dirò, nell’alveo Frenetico del mar, Teschio beffardo e calvo, Maschera da giullar! Scudo tarlato e lercio, Fantasima del sol, Spettro paffuto e guercio Dal faticoso vol! Luna fedel tu chiama Col raggio ed il col suon La fulgida mia dama Sul gotico veron.
Zappe, scuri, scarpelli. Arïeti, mattelli, Istrumenti di strage e di ruina, L’impero è vostro! O tempi irrequïeti! L’umanità cammina Ratta così che par sovra una china. Sorge ogni giorno qualche casa bianca Grave di fregi vieti. Scuri, zappe, arïeti. Smantellate, abbattete e gaia e franca Suoni l’ode alla calce e al rettifilo! Piangan pure i poeti. La progenie dei lupi e delle scrofe Oggi è sovrana e intanto le pareti Della vecchia cittade hanno un profilo Scomposto e tetro, — simigliante al metro Di questa strofe. Già gli augelletti fidi Più non trovano i nidi Consueti fra il tetto e la grondaia E sul sacro mister de’ focolari Viene a urtar la mannaia. Le muraglie diroccano, a migliaia Fuggon l’ombre de’ cari Defunti, e in lagni amari Volan gridando All’onta e al duol dell’esecrato bando! E la casa s’è fatta invereconda. Gli strazïati lari Mostrano al sole l’alcova e la fogna Senza pietà di vel che li ripari. E il cieco brancolante in sulla sponda Della contrada — smarrirà la strada Com’uom che sogna.
Là col crin di quercia e cerro, Tenebroso nel sembiante, Di tre secoli di ferro Sta lo scheletro gigante; Ritto e bruno, sulla fronte Del profilo erto d’un monte. O fastigi! o torri! o mura! Irti merli e snelli ogivi! Fu già un dì che in quell’altura Eravate eburnei, vivi, Come un sogno eccelso e bello Di fantastico castello. V’eran prodi cavalieri, V’eran dame innamorate, V’eran baldi falconieri, V’eran paggi e v’eran fate, V’eran lagni di romanze, Giuochi e caccie e giostre e danze. Tutto sparve. Fra le archiere Tesse il ragno le sue maglie, Le falene a schiere a schiere Sfioran l’orride muraglie E sul fosso asciutto e croio Dorme il ponte levatoio. Pur nei vesperi quïeti Dell’autunno erboso e molle Vengon giovani poeti A sognar su quelle zolle, Vengon vispe giovinette A danzar su quelle vette. Ed allor gli antichi spenti, Quasi surti a novo bando, Dietro i rotti monumenti Stanno attoniti spiando, Vedon già tornei, gualdane, Menestrelli e castellane; Sol che ai drappi ed ai giubbetti Manca il vaio e la lamiera, Sol che al manto ed ai farsetti Manca il paggio e la gorgiera. Sol che al petto del giullare Manca l’arpa ed il collare.
Son luce ed ombra; angelica Farfalla o verme immondo, Sono un caduto chèrubo Dannato a errar sul mondo, O un demone che sale, Affaticando l’ale, Verso un lontano ciel. Ecco perchè nell’intime Cogitazioni io sento La bestemmia dell’angelo Che irride al suo tormento, O l’umile orazione Dell’esule dimone Che riede a Dio, fedel. Ecco perchè m’affascina L’ebbrezza di due canti, Ecco perchè mi lacera L’angoscia di due pianti, Ecco perchè il sorriso Che mi contorce il viso O che m’allarga il cuor. Ecco perchè la torbida Ridda de’ miei pensieri, Or mansüeti e rosei. Or violenti e neri; Ecco perchè, con tetro Tedio, avvicendo il metro De’ carmi animator. O creature fragili Dal genio onnipossente! Forse noi siam l’homunculus D’un chimico demente, Forse di fango e foco Per ozïoso gioco Un buio Iddio ci fé E ci scagliò sull’umida Gleba che c’incatena, Poi dal suo ciel guatandoci Rise alla pazza scena, E un dì a distrar la noia Della sua lunga gioia Ci schiaccerà col piè. E noi viviam, famelici Di fede o d’altri inganni, Rigirando il rosario Monotono degli anni, Dove ogni gemma brilla Di pianto, acerba stilla Fatta d’acerbo duol. Talor, se sono il dèmone Redento che s’indìa, Sento dall’alma effondersi Una speranza pia E sul mio buio viso Del gaio paradiso Mi fulgureggia il sol. L’illusïon — libellula Che bacia i fiorellini — L’illusïon — scoiattolo Che danza in cima i pini — L’illusïon — fanciulla Che trama e si trastulla Colle fibre del cor, Viene ancora a sorridermi Nei dì più mesti e soli E mi sospinge l’anima Ai canti, ai carmi, ai voli; E a turbinar m’attira Nella profonda spira Dell’estro idëator. E sogno un’Arte eterea Che forse in cielo ha norma, Franca dai rudi vincoli Del metro e della forma, Piena dell’Ideale Che mi fa batter l’ale E che seguir non so. Ma poi, se avvien che l’angelo Fiaccato si ridesti, I santi sogni fuggono Impäuriti e mesti; Allor, davanti al raggio Del mutato miraggio, Quasi rapito, sto. E sogno allor la magica Circe col suo corteo D’alci e di pardi, attoniti Nel loro incanto reo. E il cielo, altezza impervia. Derido e di protervia Mi pasco e di velen. E sogno un’Arte reproba Che smaga il mio pensiero Dietro le basse imagini D’un ver che mente al Vero E in aspro carme immerso Sulle mie labbra il verso Bestemmïando vien. Questa è la vita! l’ebete Vita che c’innamora. Lenta che pare un secolo, Breve che pare un’ora; Un agitarsi alterno Fra paradiso e inferno Che non s’accheta più! Come istrïon, su cupida Plebe di rischio ingorda, Fa pompa d’equilibrio Sovra una tesa corda, Tale è l’uman, librato Fra un sogno di peccato E un sogno di virtù.
Chi fu? sotto la mensola D’un’arca antica e tetra Di monaster, sul margine Corroso d’una pietra, Lungo il grommoso muro, Lessi quel nome oscuro Scritto nell’ore prime D’un secolo sublime. Chi fu? perchè nell’anima L’arido enigma è sorto, Or che sul suo cadavere L’ultimo verme è morto, Or che l’avel si schiude Sulle sue tibie nude, Or che col suo lenzuolo Fa il nido l’usignolo! Scruta o sartor d’imagini. Cerca del ver la cruna, Cuci sul vecchio scheletro Una zimarra bruna, E quando avrai divino Rifatto il manichino Coll’irto stil descrivi Quel buio morto ai vivi. Sorgeva un’êra turgida Di fole e di portenti, Piovea luce e caligine Sulle confuse genti, E un’avida cuccagna Di genii e di calcagna Avea sconvolto il fondo Del lutulento mondo. Fieri, ispirati, intrepidi, Ravvolti in saio nero, Già si vedean gli apostoli Di Storck e di Lutero, S’udian maledizioni, Bestemmie ed orazioni Di cupi anabatisti, Di papi e d’anticristi. Bajardo, quel fantastico Guerrier senza paura, Già la superba epigrafe Scrivea sull’armadura; Sghignazzava Aretino Fra putte allegre e vino E Kopernico intento Frugava il firmamento. E tu? povero monaco, Di te fama non suona; Passasti sotto i gotici Tetti di Ratisbona E la tua vita brulla Nel paese del Nulla Disparì, vago vago Come un flutto di lago. Pur fosti un vivo e all’anima Chiedevi alti responsi; Invïdiavi agli uomini L’onda dei crini intonsi, E il vïolento corso T’empìa de’ sogni e il morso Del desiderio edàce. Martire della pace! E allor s’udiva a vespero, Nel tempio ov’arde l’ara, Un pio bisbiglio, un querulo Mormorio di zanzàra; Poi si scerneva un viso Macro e col crin riciso, quasi un morto in sudario, Che diceva il rosario. Talora intorno all’abside Dalle dorate pale, Le madonne di Mèckenen Ti tentavano al male E allor la prece pia Sul labbro tuo languìa, Smagata dagl’incanti Rei di quei volti santi. Ma l’uom nol sa. Le Vergini Non tradir quel mistero. Il nome tuo tre secoli Passò ignorato e mero, Solo il trovar le biche Dell’umili formiche E la pupilla inqueta D’un giovane poeta. Ed eri forse un genio A cui fallìa la gloria, Un pazïente anonimo Smascherator di storia, Un creator d’orrende Romantiche leggende O del poema nero Di Faust o d’Assuero. Forse una ragna pendula Fra due cippi romani Ti rivelò il miracolo Dei ponti americani, Forse per l’aura bruna Vedendo errar la luna Divinasti l’incauta Magìa dell’areonauta. Certo ti colse il torbido Problema del futuro Scavando i bei caratteri Sovra l’antico muro; Eri certo un poeta! Eri certo un profeta!! (O idea volgare e trista) Eri forse un copista.
Nascean le stelle; la lontana chiesa Emanava armonie. Reprobamente Vagolando pe’ campi io le sentivo; E una voce, repente, Surta dall’ombra e che parea d’un vivo Gridommi a lato: — «Tutto ciò che pesa, Uomo, ha peccato.» Io tutto mi restrinsi per paura, Nè corpo vidi che paresse accanto; La notte s’avanzava e in bel celeste Cangiava l’amaranto. Era l’ora che fa le cose meste, Quando negli orti — fra le vecchie mura Errano i morti. La sinistra parola m’avea scosse Le radici del core e all’aura bruna Vagavo al pari di corsier che aòmbra. Le foglie ad una, ad una, Cadean dai rami lor, pagine d’ombra, E in vol scosceso — parean carche e mosse Da un grave peso. Se non è fatua visïon che illuda La mente mia, pensai, qual è il peccato Che sì vi fuga o foglie intorno, intorno? E allor la larva a lato «Esse tremar di voluttà quel giorno,» — Mi rispondeva — «che covrir la nuda Bellezza d’Eva.»
Arte nata da un raggio e da un veleno, Su questo segno della tua potenza Mi si rivela appieno La tua duplice essenza. O arcane curve, ombre soavi, tocchi Luminosi, divine orme d’amore! Sento il raggio negli occhi, E il veleno nel core.
Se voi foste un color, sareste quello Del geranio fiorito; Ed io vi porterei sul mio vestito Attaccata all’occhiello. E se foste un olezzo, voi sareste L’incenso degli Dei, Iris, ginepro o maggiorana agreste; Ed io sternuterei. Se un sapor foste, egli sarìa stupendo Pizzicor di rosoli; Io sarei, per quel caso, il Reverendo Canonico Ambrosoli. Carme, sareste il Cantico de’ Cantici E gli organi giudei Suonerebbero a festa, ed io sarei Il mantice de’ mantici! Se foste un vento, sareste Scirocco D’Algeri o di Marocco, Soffio arcano, bollente e Levantino; Ed io sarei mulino. Ora di questi versi Resta ancora a vedersi La lieta allegoria Ch’è palese e nascosa: Siete la Poësia Ed io sono la prosa.
Quel tono era una Venere Che un arcaïco scalpello Creò ne’ suoi più fervidi Morsi d’amor col Bello; Oggi, marmoreo enigma Dall’olimpico stigma, Di tant’arte non resta Che un busto senza testa. Pur nelle tronche viscere La Dea non è ancor morta, Un’agonia di secoli La fece fredda e smorta, Ma nella nuda fibra Palpita, guizza, vibra, Quasi monco serpente, L’Eginetica mente. Così le fece il genio Le piaghe sue più grame, E le eternò il martirio Di Mosca e di Bertrame. Pur colle rotte braccia Quel torso ancor m’allaccia, E al secolo che raglia Sembra cercar battaglia. O monti! o cime candide Della serena Paro! Brezze marine! tremulo Irradiar del faro! Autunni e primavere Dell’erme tue scogliere! Delle tue dolci dune Albe! tramonti! lune! In alta pace estatica Tu là dormivi, o sasso, Nè a te giungeva l’alito Di questo mondo basso; Lenìan tua bianca grana Carezze di lïana, Ed albergavi il trillo D’un solitario grillo. E quando i due crepuscoli Splendean sull’orizzonte. Tu, coronando il placido Profilo del tuo monte, Lanciavi al ciel favilli Di quarzi e di lapilli Ed abbagliavi al piano L’errante mandrïano. Ma poi discese un’Attica Gente brïaca d’arte. Seminatrice prodiga Di monumenti e carte; Vider per la campagna La magica montagna E con gioia rubesta Ne distaccâr la cresta. Piombasti e fosti Venere. Fra citaredi e schiavi Per te strisciò la polvere Il folto crin degli avi; Avesti ara e ghirlande. Sacerdotesse blande, Languide danze e fumi Di roghi e di profumi. Se ti vedeva il libero Motteggiator d’Egina Che il genio avea del fäuno E la barba caprina, Per te molceva il riso Del suo beffardo viso E in dorica melòde Sciogliea sull’arpa un’ode. Poi t’ebbe Roma, emporio Di statue e di colonne, Teatro allor di Veneri Com’oggi di Madonne, Li cominciò la scoria Del tempo e della storia A macular con orme Di lepra le tue forme. Vivesti in mezzo al fremito Dell’orgie e nei triclini Dove fetèa la nausea Dei tracannati vini; Là, fra le turpi e gaie Follie delle ambubaie Con un osceno crollo T’hanno fiaccato il collo. Povera Dea! vanirono Allor profumi e canti, L’irriverente greculo Ti zuffolò davanti, Fosti bruttata al piede Con impudiche scede E una ciurmaglia sgherra Ti rotolò per terra. Sublimi tempi olimpici E putride cloàche, E baci di caleïdi, E sputi di lumache, Tutto hai provato, e l’asta Del santo iconoclasta E lo schiaffo plebeo Del porco epicureo. Ma noi questa prosaica Gente ch’or ti raccolse, Adoratrice instabile D’arti sfrenate o bolse, Oggi forse minaccia Quelle tue monche braccia Di più fiero dolore: Il restäuratore.
Mummia fasciata in logori Papiri sontuösi, Mummia che sul sudario Porti l’apoteösi, Perdona se i nepoti, Più culti che devoti, Fan del tuo frale eterno Sì misero governo. Tu, nata al sole, al fulgido Sole del tuo deserto, Al soffio ardente e libero D’un orizzonte aperto, Tu non pensavi, un giorno. Nel gel d’un aer piorno, D’esser messa in vetrina Da una gente latina. O fumo degli olibani! O roride nepenti! Ombrìa profonda e placida De’ patrii monumenti! A così bella pace Ti derubò rapace Una che non ha posa Scienza curïosa. E come appar su putrido Brago una morta bolla, Tu comparisti ai cupidi Stupori della folla; Dal mondo incivilito Fosti segnata a dito Qual prezïoso e pulcro Rifiuto del sepulcro. E venne il paleologo, Divinator de’ segni, A ordir sul tuo sarcofago Cifre di stirpi e regni; Fu vïolato intero Della tomba il mistero; T’han lisciate le chiome E t’han chiamata a nome. Oggi, depositario Di tanta erudizione, Pianta bottega e cattedra Un lurco cicerone Che ti narra all’Inglese (Pur ch’e’ paghi le spese) Storpiando i nomi (o scherno!) Del tuo parlar materno. E nel guatarti il pargolo S’asconde per paura, Poi, nella notte, orribile Sogna la tua figura. Al cinico Narciso Svegli sul labro il riso; Nessun vien col pensiere Di dirti un miserere Eppur chiudesti un’anima In quella sorda testa, Lo sento, e n’è riverbero Quella tua fronte mesta, Eppur sentisti il core Balzarti per amore, Eppur provasti il morso Del pianto e del rimorso. Meglio se fosse in polvere La creta tua tornata Con sì pietoso studio Da’ cari tuoi fasciata. Che voleresti al sole Effluvio di vïole O sabbia in groppa al vento Per l’ampio firmamento. Meglio se fra le torbide Furie dell’Oceàno T’avesse in mezzo ai vortici Travolta l’uragano, Chè avresti le convalli Di perle e di coralli E toccheresti il fondo D’un prodigioso mondo. Qui per andar di secoli Non muterà tua sorte, Vedrai novelli popoli Colle occhïaia morte, E il tempo che ne fruga Non segnerà una ruga Sovra il tuo volto scarmo E freddo come marmo. Ma un dì verrà, novissimo, Che in una cupa valle Cadrem, tremanti, pallidi. Coi nostri errori a spalle, E sentirem la tromba Che spezzerà ogni tomba. Mummia, quella mattina Romperai la vetrina.
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