Splende a distesa il giorno rosato alla pianura, la tremula calura richiama a lungo intorno dall’alto il visibilio dei passeri nel sole. Il grano trema e nere si schiudono farfalle all’afa azzurra; d’oro, riversa a quel ristoro di luce, nelle gialle stoppie bisbiglia l’aria… Così morbido e solo scorre sul fiume il verde silenzio che alle valli odoroso si perde. Restano i campi gialli, monotona campagna dei grilli e della sera…
La nebbia rosa e l’aria dei freddi vapori arrugginiti con la sera il fischio del battello che sparve nel largo delle campane. Un triste davanzale, Venezia che abbruna le rose sul grande canale. Cadute le stelle, cadute le rose nel vento che porta il Natale.
Chi stringe i venti, e annebbia le specchiere oltre i mari d’autunno, nell’alone delle polveri cieche? Tutta la notte nella pioggia ho visto sparire la città, tremava il palco il fradicio dei legni sul mareggio della laguna, e la lumaca cieca intrepida sbavava la sua strada. L’amore era il sudario dei miei volti affacciati da sempre, le palpebre pesanti, il naso duro come il silenzio fermo sulle labbra. Mi dicevo di me ch’ero al tuo riso lontano l’ombra che scavalca i ponti il dannato che insegue la sua fuga. Vicina eri il puntiglio della grazia che tiene a bada la sua smania e al filo degli occhi le tue ciglia da moscone, il raggiro assonante dell’insidia.
Poesia n. 330 Ottobre 2017 Alfonso Gatto. Poeta per fanciulli di ogni età a cura di Luigi Beneduci
La chiusa angoscia delle notti, il pianto delle mamme annerite sulla neve accanto ai figli uccisi, l’ululato nel vento, nelle tenebre, dei lupi assediati con la propria strage, la speranza che dentro ci svegliava oltre l’orrore le parole udite dalla bocca fermissima dei morti «liberate l’Italia, Curiel vuole essere avvolto nella sua bandiera»: tutto quel giorno ruppe nella vita con la piena del sangue, nell’azzurro il rosso palpitò come una gola. E fummo vivi, insorti con il taglio ridente della bocca, pieni gli occhi piena la mano nel suo pugno: il cuore d’improvviso ci apparve in mezzo al petto.
Se mi tornassi questa sera accanto lungo la via dove scende l’ombra azzurra già che sembra primavera, per dirti quanto è buio il mondo e come ai nostri sogni libertà s’accenda di speranze di poveri di cielo, io troverei un pianto da bambino e gli occhi aperti di sorriso, neri neri come le rondini del mare. Mi basterebbe che tu fossi vivo, un uomo vivo col tuo cuore è un sogno. Ora alla terra è un’ombra la memoria della tua voce che diceva ai figli: Com’è bella la notte e com’è buona ad amarci così con l’aria in piena fin dentro al sonno. Tu vedevi il mondo nel plenilunio sporgente a quel cielo, gli uomini incamminati verso l’alba.
Non date retta al re, non date retta a me. Chi v’inganna si fa sempre più alto d’una spanna, mette sempre un berretto, incede eretto con tante medaglie sul petto. Non date retta al saggio al maestro del villaggio al maestro della città a chi vi dice che sa. Sbagliate soltanto da voi come i cavalli, come i buoi, come gli uccelli, i pesci, i serpenti che non hanno monumenti e non sanno mai la storia. Chi vive è senza gloria.
Melampo era un bambino di gomma e cancellava i passi che segnava mettendosi in cammino. Era di gomma rossa, tondo come una palla, e stava sempre a galla nel bagno, e senza ossa dolce, tenero, buono, scendeva dalle scale senza mai farsi male saltando dal balcone. A scuola era bocciato, sempre il quaderno bianco! Eppure era il più franco a scrivere il dettato. Scriveva e poi cassava con la mano di gomma, i numeri, la somma, le lettere, e tornava a scrivere, a cassare. E sempre zitto rosso con tutti gli occhi addosso senza poter parlare. O povero Melampo! Un giorno, detto fatto, saltò su di scatto e si bucò la pancia. Fischiò come un pallone sgonfiato d’ogni affanno e visse senza danno tappando col bottone il buco della pancia. Visse nel tempo antico Melampo – ve l’ho detto? – Fischiò col suo fischietto premendosi a soffietto il disco all’ombelico.
I bambini che pensano negli occhi hanno l’ inverno, il lungo inverno. Soli s’ appoggiano ai ginocchi per vedere dentro lo sguardo illuminarsi il sole. Di là da sé, nel cielo, le bambine ai fili luminosi della pioggia si toccano i capelli, vanno sole ridendo con le labbra screpolate. Son passate nei secoli parole d’ amore e di pietà, ma le bambine stringendo lo scialletto vanno sole sole nel cielo e nella pioggia. Il tetto gocciola sugli uccelli della gronda.
Boccaccio era il portiere, il gran portiere giallo della squadra del quartiere. Stava all’erta come un gallo sulla porta del campetto alla periferia. Diceva: << Qua sul petto, ed ogni palla è mia >>. Ma quel giorno, chi lo sa, sbuca di qua sbuca di là – Boccaccio attento! – pa pa la palla è in rete. << Ma va, ma va, Boccaccio, è uno >>. Attento, di qua di là, passa non passa, tira. Boccaccio si rigira; si tuffa – passerà?- <>, ma la palla è nel sacco. E son due. Lo smacco, i fischi, e poi sotto… << Salta a pugno, Boccaccio, ma non la vedi dov’è, salta, salta…>> E son tre. E quattro e cinque e sei. – Boccaccio dove sei?- E sette e otto e nove e piove e piove e piove con grandine e con tuoni. Quattordici palloni nella rete di Boccaccio poveretto poveraccio, bianco come uno straccio col berretto da fantino ubriaco senza vino. Quanti fischi! e poi << cretino >>, << pastafrolla >>, << posapiano >>, << tappabuchi >>, << moscardino! >> Oh, quel povero Boccaccio nella furia del baccano si strappava i suoi capelli e la folla dai cancelli gli gridava: << Ancora, ancora >>. Tutti tutti, ad uno ad uno si strappò capelli e baffi e poi schiaffi sopra schiaffi si ridette per lezione. Restò lì con la sua testa tonda, liscia come palla. << Oh, son quindici con questa – gli gridò dietro la folla – tappabuchi, pastafrolla vai a guardia d’un portone…! >> E difatti il buon Boccaccio col berretto e col gallone, mani pronte e spazzolone, oggi è a guardia d’un portone dove passano persone che fermare egli non può, dieci venti cento e più.
Piove su questa casa bianca, è sera. Lo squallore murario, nei balconi verdi, nei raspi delle sorbe, annera. I pavesi del lutto sui portoni si vestono d’argento con quel lume di cielo che rimane in alto, fioco. Una sera di calma tra le brume dolci del golfo, svèntola sul fuoco del braciere una donna a sé traendo il bambino assonnato che le pesa sull’altro braccio. In quel che vedo intendo spiegata tenerezza, la distesa del mare nel suo cerulo sconfina. Io ti parlo così con questa calma che non è mia, è sempre più vicina l’ora di tutti, vedo sulla palma del lungomare la stanchezza occidua della luce, la raffica silente. Di controvoglia questa mano insinua la carezza obliosa. Non è niente, credimi, quest’effigie, questo fumo continuo, non è niente. Negli assorti pensieri della veglia mi consumo per avvenenza come tutti i morti.
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