Vivo tra quattro mura matematiche allineate a metro. Mi circondano apatiche animucce che non un grammo sanno di questa febbre azzurra che nutre la mia chimera. Uso una pelle finta e la tratteggio in grigio. Corvo che sotto l’ala nasconde un fiordaliso. Sorridere mi fa il mio fiero e torvo aspetto, che a me per prima sembra pura farsa e dispetto.
Il giorno in cui morirò, la notizia seguirà le solite procedure, da un ufficio all’altro con precisione dentro ogni registro verrò cercata. E là molto lontano, in un paesino che sta dormendo al sole su in montagna, sopra il mio nome, in un vecchio registro, mano che ignoro traccerà una riga.
All’orecchio questa notte mi hai detto due parole comuni. Due parole stanche di essere dette. Parole che da vecchie si son fatte nuove. Due parole così dolci, che la luna che passava filtrando tra i rami nella mia bocca si è fermata. Due parole così dolci che una formica mi cammina sul collo e resto immobile non provo nemmeno a scacciarla. Due parole così dolci che senza volerlo esclamo: oh, che bella, la vita! Così dolci e così mansuete che oli profumati scorrono sul corpo. Così dolci e così belle che nervose, le mie dita, si muovono verso il cielo imitando una forbice. Vorrebbero le mie dita tagliare stelle.
In fondo al mare c’è una casa di cristallo. A una strada di madreperle conduce. Un grande pesce d’oro, alle cinque. mi viene a salutare. Mi porta un ramo rosso di fiori di corallo. Dormo in un letto un poco più azzurro del mare. Un polipo mi fa l’occhietto attraverso il cristallo. Nel bosco verde che mi circonda – din don… din dan… – dondolano e cantano le sirene di madreperla verdemare. E sulla mia testa ardono, al crepuscolo, le ispide punte del mare.
Mi sfugge dalle dita la carezza senza motivo, mi sfugge dalle dita. Nel vento, quando passa, la carezza che vaga senza destino o meta, la carezza perduta, chi la raccoglierà? Stasera potrei amare con pietà infinita, potrei amare il primo che incontrerò per strada. Nessuno passa. Immoti, soli, i sentieri fioriti. La carezza perduta qui attorno vagherà. Viandante, se ti baciano sugli occhi questa notte, se i rami son trascorsi da un docile sospirare, se ti preme le dita una piccola mano, che ti afferra e ti lascia, ti prende e se ne va, se mano non vedrai, né la bocca che bacia, ed è l’aria che tesse l’illusorio baciare, oh viandante che come il cielo hai gli occhi me confusa nel vento saprai rintracciare?
Perché io ho il petto bianco, docile, inoffensivo, dev’essere che le tante frecce che vanno nell’aria vagando prendono la sua direzione e lì si piantano. Tu, la mano perversa che mi ferisce, se questo è il tuo piacere, poco ti basta; il mio petto è bianco, è docile ed è umile: fuoriesce un po’ di sangue… dopo, nulla.
Ho il presentimento che vivrò molto poco. Questa mia testa assomiglia a un crogiolo, purifica e consuma, ma senza un gemito, senza un accenno di orrore. Per uccidermi chiedo che un pomeriggio senza nubi, sotto il limpido sole, nasca da un grande gelsomino una vipera bianca che dolce, dolcemente, mi punga il cuore.
Uomo, io voglio che tu comprenda il mio male, uomo, io voglio che tu mi dia dolcezza, uomo, io vado per i tuoi stessi sentieri; figlio di madre: comprendi la mia pazzia…
Denti di fiori, cuffia di rugiada, mani di erba, tu, dolce balia, tienimi pronte le lenzuola terrose e la coperta di muschio cardato. Vado a dormire, mia nutrice, mettimi giù. Mettimi una luce al capo del letto una costellazione; quella che ti piace; tutte van bene; abbassala un pochino. Lasciami sola: ascolta erompere i germogli… un piede celeste ti culla dall’alto e un passero ti traccia un percorso perché dimentichi… Grazie. Ah, un incarico se lui chiama di nuovo per telefono digli che non insista, che sono uscita…
Tristi strade dritte, ingrigite e uguali, da cui s’intravede, talvolta, uno spicchio di cielo, le sue scure facciate e l’asfalto del suolo hanno spento i miei tiepidi sogni primaverili. Quanto vagai da quelle parti, sbadata ed intrisa nel vapore grigiastro, lento, che le decora, Della loro monotonia la mia anima soffre tutt’ora – Alfonsina! – non chiamare. Ormai non rispondo a niente. Se in una delle tue case, Buenos Aires, morirò osservando in giorni autunnali il tuo cielo recluso per me non sarà una sorpresa la tua lapide pesante. Che tra le tue strade dritte, unte dal suo fiume spento, plumbeo, desolante e ombroso, quando vagai da quelle parti, già stavo sottoterra.
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