Antonella Anedda
Se l’avesse vista
se avesse visto la sua forma mortale
spalancare stanotte il frigorifero
e quasi entrare con il corpo
in quella navata di chiarore,
muta bevendo latte
come le anime il sangue
spettrale soprattutto a se stessa
assetata di bianco, abbacinata
dall’acciaio e dal ferro
bruciandosi le dita con il ghiaccio
avrebbe detto non è lei. Non è
quella che morendo ho lasciato
perché mi continuasse.
Antonella Anedda (Roma, 1958), da Salva con nome (Mondadori, 2012)
Una sete notturna, istintiva, guida i passi e i gesti di una donna fino a sporgersi sul frigo-sarcofago-soglia tra i vivi e i morti. La figura di questa donna tra sonno e veglia entra in un rito che porta oltre il confine che ci separa dai trapassati. È il bisogno di latte a chiamarla, così come nell’XI canto dell’Odissea è il bisogno di sangue a far risalire le anime sulla terra. Un latte materno che la nutre di assenza, fino a renderla tramite dello sguardo e delle parole della madre che dall’oltre non la riconosce, spezzando la linea della generazione e dell’eredità. L’enjambement nel terz’ultimo verso rimarca questa condizione di identità negata, mancata o assunta in negativo, come è proprio degli spettri. Questa poesia, insieme a 1943 introduce alla seconda sezione di Salva con nome, Pneumologia, dedicata all’immagine materna e conclusa, specularmente, da questo verso: (Lei è – e non è – mia madre).
(Franca Mancinelli)