Ricovero per indigenti

Alessandro Ceni

Alessandro Ceni

 

Dio chiamò a sé
e lo fece
ardendoli vivi
in un edificio scolastico
nel modo più vile, nel sonno,
in un orfanotrofio
o fabbricato dismesso o villaggio operaio o
ronda di casiglianti lungo i perimetrali degli averni condominiali,
nelle dimore di pena
annegandoli
tenendo loro sotto la testa
nel lavandino del mare comune
se
salpano festanti
su navigli di silicio,
le negri pelli di ebreo tese al sole ad asciugare
esplodendoli
su mine inesplose
schiacciandoli
in un pullman in gita
sbatacchiandoli
contro l’insonorizzato sgabello in cui incespichi e cadi,
com’è della noce sul sasso o della drizza sul capo del figlio di Ettore
appoggiandoli
alla benda della fucilazione
al muro delle fibule, alla foglia d’alloro
al gabbio dei ricordi, alla paranza di spume
concupendoli
nel tempio
evirandoli
nell’attesa
abitandoli
nella colpa
ignorandoli
nell’invocazione
e
lodandoli
mandarli a farsi la doccia
dopo il ring o la camera ardente o da sala da ballo.
Quando
rintascato il fischietto
dio
siede lì
flesso
sul bordo sbreccato
di qualsiasi cosa,
la tesa del cappello arrovesciata
ad una brezza greve da colonia estiva,
le gambe
oltre la murata scabrosa di una tazza che porgi
l’angelo cesserà di frapporsi
tra te e la fine:
sei
la madre che si getta dalla finestra del bagno
stringendosi il piccolo al petto.
da Combattimento ininterrotto (in Parlare chiuso, Tuttelepoesie, 2012)